Le diverse facce dell’interventismo

di Alessandro Salvador

"La Guerra č un'imposizione fulminea di coraggio, di energia e d'intelligenza a tutti. Scuola obbligatoria d'ambizione e d'eroismo; pienezza di vita e massima libertą nella dedizione alla patria."
Filippo Tommaso Marinetti

Allo scoppio della guerra nel 1914 l’Italia si trovò in una situazione di incertezza. Fin dal 1882 il paese era legato dalla triplice alleanza alla Germania e all’Austria-Ungheria. Questo patto, meramente difensivo, era stato rinnovato nel 1912, ma non vincolava in alcun modo l’Italia ad entrare in guerra al fianco degli imperi centrali. Per questo motivo e la mancanza di vantaggi evidenti nel partecipare al conflitto, la linea prevalente fu quella della neutralità, sostenuta dall’ex capo del governo, Giovanni Giolitti, insieme alla gran parte del panorama politico e sociale italiano di allora. A favore di questa linea si espressero anche i socialisti e i cattolici. I primi si rifacevano all’internazionalismo mentre i secondi al pacifismo, peraltro apertamente sostenuto dal pontefice Benedetto XV.
In questo panorama, in cui il neutralismo sembrava dominare incontrastato, emersero le voci discordanti dei cosiddetti interventisti, favorevoli ad una guerra contro gli imperi centrali. Le ragioni di questa minoranza erano molteplici, come diversi erano i profili di chi le sosteneva.
Un eterogeneo gruppo di politici, giornalisti ed intellettuali costituì i primi nuclei del movimento interventista. Letterati e artisti come Gabriele d’Annunzio, Filippo Tommaso Marinetti e i futuristi divennero i megafoni dell’entusiasmo bellico. Essi rappresentavano con la loro arte la bellezza e l’esaltazione della tecnica, dell’eroismo e dell’azione. La guerra, per i futuristi, rappresentava l’igiene dei popoli. 
Sul piano pratico l’interventismo dava particolare rilievo al desiderio di portare a compimento il processo risorgimentale, ricongiungendo all’Italia le terre “irredente”: Trentino e Venezia Giulia. Tra gli irredentisti vi erano sia ferventi nazionalisti, come Scipio Slataper, fautori di una politica aggressiva e imperialista, sia democratici come Cesare Battisti. I nazionalisti erano la componente più aggressiva del movimento interventista. Essi, oltre al completamento del processo risorgimentale, vedevano nella guerra un’opportunità tramite la quale l’Italia poteva imporre il proprio ruolo di potenza. Nella loro visione, gli obiettivi di guerra dovevano portare al predominio italiano sull’Adriatico e i Balcani e all’avvio di una politica di espansione verso l’Asia e l’Africa. Le loro posizioni trovavano eco anche nel mondo della cultura.

Alle idee dei nazionalisti si avvicinavano, cautamente, anche i liberali conservatori, rappresentati dal capo del governo, Antonio Salandra, e dal ministro degli esteri Sidney Sonnino. Essi vedevano nel conflitto l’opportunità per consolidare l’unità della nazione grazie al conseguimento di un obiettivo comune e rafforzare così l’immagine e il potere della monarchia. Al tempo stesso erano consci che una sconfitta avrebbe potuto compromettere l’immagine dell’Italia in modo irrimediabile.
Ragioni opposte animavano, invece, i sindacalisti rivoluzionari come Filippo Corridoni per i quali la guerra avrebbe provocato un apocalittico sconvolgimento delle strutture politiche e sociali esistenti. Ciò avrebbe favorito la nascita di un nuovo ordinamento sociale sulle macerie del vecchio mondo. È a queste idee che aderì, dopo una iniziale neutralità, Benito Mussolini, direttore del quotidiano socialista Avanti!. La sua conversione all’interventismo e la critica feroce all’inazione socialista gli valsero l’espulsione dal partito e il licenziamento dalla carica di direttore del giornale.
Su posizioni moderate, infine, si erano attestati i socialisti riformisti, come Leonida Bissolati e Ivanoe Bonomi, e i repubblicani democratici come Gaetano Salvemini. Essi vedevano nella guerra un passaggio essenziale verso un nuovo ordine europeo. Pur distanti dalle previsioni apocalittiche dei sindacalisti rivoluzionari, essi credevano che fosse doveroso promuovere una crociata che combattesse sistemi di potere anacronistici e despotici come quelli degli imperi centrali. Solo eliminando queste anomalie nel panorama europeo, sarebbe stato possibile inaugurare una nuova era caratterizzata dalla autodeterminazione dei popoli e dalla cooperazione internazionale. Obiettivi, questi ultimi, che caratterizzavano anche l’interventismo cattolico, rappresentanti del quale furono giovani militanti di Lega Democratica come Eligio Cacciaguerra e Giuseppe Donati. Interventista fu anche Don Luigi Sturzo, che vedeva nella guerra la possibilità di una emancipazione della politica italiana dal trasformismo giolittiano.


Testimonianze

Giovanni Boine (1877-1917)
La lotta di classe come cancrena e la guerra come farmaco

Tra gli scritti più autorevoli delle riviste d’anteguerra, troviamo quelli di Boine. All’indomani dell’ingresso dell’Italia nel primo conflitto mondiale, fu lui a pubblicare sulla Voce una sorta di “breviario” del bravo soldato. Nel testo lo scrittore esprime la sua avversione per il socialismo, la lotta di classe e la democrazia liberale, sostenendo la necessità di una guerra come farmaco per la rinascita della nazione.

Cagioni estreme dello spegnersi del sentimento patrio […] La lotta sociale si è impadronita degli animi, li ha mossi nell’ambito del diritto d’ognuno, ha formato partiti compatti come eserciti e li ha scagliati cozzanti gli uni contro gli altri […] è inutile dir come e perché, far storie e cronistorie: la lotta sociale ha educato i figli dei patrioti del risorgimento a pensar la vita come una lotta per vivere materialmente meglio ed a considerare come nemico che a questo nostro meglio s’oppone o contrasta.

La guerra come sveglia dal torpore egoistico. Ciò che solitamente guarisce una nazione da codeste cancrene […]; ciò che guarisce da queste dispersioni materialistiche ed egoistiche è un entusiasmo comune che strappi violentemente sè da sè ciascuno e lo rifaccia da individuo, al più da gregario o di famiglia o di corporazione, cittadino cosciente. E può essere un comune dolore, può essere un avvenimento grande, una religione nuova, qualcosa che comunque appassioni e scuota. E più solitamente come per cosmica legge è LA GUERRA. Arriva la guerra ed ogni altra voce della nazione tace; la nazione divisa si fonde, pende tutta ad una cosa sola, […] LA NAZIONE SI RICONOSCE.

La guerra libica e i suoi risultati morali. Ecco qui: la guerra ci ha insegnato o riinsegnato tangibilmente due cose innanzitutto, CHE SIAMO UNA NAZIONE E CHE C’È, PRIMA DI OGNI ALTRO, L’INTERESSE DI QUESTA NAZIONE DA TUTELARE PER NOI. E ci ha insegnato una terza cosa la quale dimenticavamo volentieri: che C’È UN ESERCITO E CHE FORSE È PER LA VITA DELLA NOSTRA NAZIONE PIÙ IMPORTANTE DI QUEL CHE SI CREDESSE. […] In mezzo all’anarchica passione sociale, in mezzo alle lotte di interessi e di classe che ci fan smarrire il senso delle direzioni ideali L’ESERCITO È OLTRETUTTO SPECIE IN UNA NAZIONE MODERNA, COME UN GENERATORE DI ORDINE. Si chiede da ogni parte la regola e l’ordine; si sente il bisogno dell’ordine; si tenta inutilmente dalle scuole alle officine d’infondere il gusto dell’ordine […] Ma l’ordine di che la società ha bisogno, di che i nostri tempi sono capaci ancora, solo un’idea superiore lo genera: quella della PATRIA.


Benito Mussolini (1883-1945)
Il
Popolo d’Italia come voce dell’interventismo 

Socialista interventista, Mussolini viene costretto a dimettersi dal giornale il 20 ottobre 1914 a causa di un articolo sull’Avanti! dove prospettava l’intervento italiano in guerra. Raccolti rapidamente i fondi necessari per aprire un nuovo quotidiano, il 20 novembre 1914 esce il primo numero del Popolo d’Italia dal quale Mussolini attacca violentemente i vecchi compagni. Il 29 dello stesso mese viene espulso dal PSI.

In un’epoca di liquidazione generale come la presente, non solo i morti vanno in fretta […], ma i vivi vanno ancora più in fretta dei morti. Attendere può significare giungere in ritardo e trovarsi dinanzi all’inevitabile fatto compiuto […]. Se si fosse trattato o si trattasse di una questione di secondaria importanza, non avrei sentito il bisogno, meglio, il dovere di creare un giornale: ma ora checché si dica da i neutralisti, una questione formidabile sta per essere risolta: i destini dell’Europa sono in relazione strettissima coi possibili risultati di questa guerra; disinteressarsene significa staccarsi dalla storia e dalla vita. Ah no! Noi non siamo, noi non vogliamo essere mummie perennemente immobili con la faccia rivolta allo stesso orizzonte, o rinchiuderci tra le siepi anguste della beghinità sovversiva […]; ma siamo uomini, e uomini vivi che vogliamo dare il nostro contributo, sia pure modesto alla creazione della storia. […] Se domani ci sarà un po’ più di libertà in Europa, un ambiente quindi politicamente più adatto alla formazione delle capacità di classe del proletariato, disertori ed apostati non saranno stati tutti coloro che al momento in cui si  trattava di agire si sono neghittosamente tratti in disparte? Se domani invece la reazione prussiana trionferà sull’Europa, dopo la distruzione del Belgio, col progettato annientamento della Francia, abbasserà il livello della civiltà umana, disertori ed apostati saranno stati tutti coloro che nulla hanno tentato per impedire la catastrofe.  Da questo dilemma non si esce ricorrendo alle sottili elucubrazioni della neutralità assoluta […] Oggi, io lo grido forte la propaganda antiguerresca è la propaganda della vigliaccheria. Ha fortuna perché vellica ed esaspera l’istinto della conservazione individuale. Ma per ciò stesso è propaganda antirivoluzionaria. […] Il compito dei socialisti rivoluzionari non potrebbe essere quello di svegliare le coscienze addormentate delle moltitudini e di gettare palate di calce viva nella faccia ai morti, e son tanti in Italia, che si ostinano nell’illusione di vivere? Gridare “Noi vogliamo la guerra!” non potrebbe essere, allo stato dei fatti, molto più rivoluzionario che gridare “abbasso”?
 

Giovanni Papini (1881-1956)
La guerra come operazione malthusiana 

Scrittore, poeta e aforista Papini fu un intellettuale ambivalente, rappresentante della parte più eversiva della borghesia italiana. Dalle colonne di Lacerba diede il via ad una massiccia campagna a favore dell’intervento dai toni cinici e nichilisti. Amiamo la guerra è uno dei più riusciti esempi delle argomentazioni di Papini.

Finalmente è arrivato il giorno dell'ira dopo i lunghi crepuscoli della paura. Finalmente stanno pagando la decima dell'anime per la ripulitura della terra […]. È finita la siesta della vigliaccheria, della diplomazia, dell'ipocrisia e della pacioseria. I fratelli sono sempre buoni ad ammazzare i fratelli! i civili son pronti a tornar selvaggi, gli uomini non rinnegano le madri belve […]. Siamo troppi. La guerra è una operazione malthusiana. C'è un di troppo di qua e un di troppo di là che si premono. La guerra rimette in pari le partite. Fa il vuoto perché si respiri meglio. Lascia meno bocche intorno alla stessa tavola. E leva di torno un'infinità di uomini che vivevano perché erano nati; che mangiavano per vivere, che lavoravano per mangiare e maledicevano il lavoro senza il coraggio di rifiutar la vita. […] il fuoco degli scorridori e il dirutarnento dei mortai fanno piazza pulita fra le vecchie case e le vecchie cose. Quei villaggi sudici che i soldatacci incendiarono saranno rifatti più belli e più igienici. E rimarranno anche troppe cattedrali gotiche e troppe chiese e troppe biblioteche e troppi castelli per gli abbrutimenti e i rapimenti e i rompimenti dei viaggiatori e dei professori. Dopo il passo dei barbari nasce un'arte nuova fra le rovine e ogni guerra di sterminio mette capo a una moda diversa. Ci sarà sempre da fare per tutti se la voglia di creare verrà, come sempre, eccitata e ringagliardita dalla distruzione. Amiamo la guerra ed assaporiamola da buongustai finché dura. La guerra è spaventosa e appunto perché spaventosa e tremenda e terribile e distruggitrice dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi.


Link

http://it.wikipedia.org/wiki/Interventismo
http://www.treccani.it/enciclopedia/la-grande-guerra-e-la-rivoluzione-fascista_(Cristiani_d'Italia)/

 

Letture

Gioacchino Volpe, Il popolo italiano tra la pace e la guerra (1914-1915), Roma, Bonacci, 1992
Terenzio Grandi, Bice Rizzi (a cura di), Irredentismo e interventismo nelle lettere agli amici, 1903- 1920. Ergisto Bezzi, Trento, Museo Trentino del Risorgimento e della lotta per la libertà, 1963
Andrea Frangioni, Salvemini e la Grande Guerra: interventismo democratico, wilsonismo, politica delle nazionalità, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2011