Puntata

La psichiatria in tempo di guerra: soldati, civili e storiografia

di Anna Grillini

Una delle immagini più potenti impresse nella memoria collettiva della Grande Guerra è quella del soldato traumatizzato, questi uomini furono spesso tacciati di codardia o accusati di essere simulatori. Ancora oggi non abbiamo cifre certe riguardo al numero di uomini vittime di traumi mentali, men che meno sappiamo quali furono le conseguenze delle violenze sui civili.

Le nevrosi di guerra (la loro origine, il loro decorso, le conseguenze e la loro influenza sulle capacità militari e disciplinari degli eserciti europei) sono entrate nel cuore del dibattito storiografico a partire dagli anni Settanta con l'opera di Eric J. Leed, No man's land, pubblicata in Italia a metà degli anni Ottanta, quasi contemporaneamente a un'altra opera magistrale: quella di Paul Fussell, The Great War and Modern Memory. Nelle loro diverse tematiche e impostazioni entrambe le opere pongono un marcato accento sulla novità della realtà bellica della Grande Guerra ovvero l'industrializzazione: «La guerra non può essere intesa secondo i termini tradizionali: la mitragliatrice da sola, è sufficiente a renderla così unica e particolare che non se ne può davvero parlare come se fosse una delle tante guerre della storia. O, peggio della storia letteraria». La guerra industrializzata è la guerra dei bombardamenti continui, delle raffiche impersonali delle mitragliatrici, della sproporzione tra mezzi di attacco e di difesa. È anche il conflitto dei nuovi mezzi di trasporto che portano le nuove leve a tutta velocità verso il fronte, che contribuiscono a salvare vite trasportando i feriti lontano dal fronte, che disperdono una moltitudine immensa di persone ormai senza casa e che letteralmente deportano i prigionieri di guerra in campi lontani e sconosciuti.

Durante i primi mesi di guerra i medici militari accolgono con sgomento migliaia di uomini traumatizzati che giungono dal fronte dopo ogni assalto. Ben presto però, iniziano a notare che per molti uomini i sintomi che si presentano non sono poi così nuovi. Elementi di novità sono la quantità, la varietà e l'insistenza con cui i sintomi nevrotici si manifestano, non la patologia nel complesso. I traumi che durante il conflitto prendono nomi quali sindrome da “soldato sepolto vivo” o “da gas” sono tipologie di traumi che si possono riscontrare anche in tempo di pace ciò che cambia radicalmente è il fattore scatenante la malattia e i soggetti che ne risultano colpiti. Prima della guerra l'isteria è considerata una malattia tipicamente femminile o, in alternativa, può essere riscontrata in conseguenza a disastri o calamità come incidenti ferroviari o terremoti. Dallo scoppio del conflitto quelle stesse tipologie di traumi diventano le più diffuse tra i combattenti al fronte. L’interrogativo che assilla gli alienisti dell’epoca può essere riassunto in questo modo: «sono le paure a scatenare le manifestazioni patologiche o più semplicemente si ammalano talune categorie di soggetti la cui predisposizione li avrebbe condotti comunque verso tali forme morbose?». La classe medica dell’epoca era sostanzialmente concorde nell’affermare che i soggetti colpiti da patologie mentali durante la guerra non fossero altro che persone già costituzionalmente predisposte alla malattia e che, di conseguenza, la guerra non fosse responsabile della loro condizione.

La storiografia è, invece, abbastanza concorde nell'affermare che queste nevrosi riconducibili direttamente al conflitto non siano state un frutto generico di una guerra qualsiasi ma la diretta conseguenza della guerra moderna e industrializzata. Il nodo cruciale su cui molti storici sono divisi e su cui difficilmente si troverà una visione comune è quello dell'intrinseca motivazione che si celava dietro le nevrosi belliche. Tra i primi storici italiani ad avvicinarsi alla questione vi sono Antonio Gibelli e Bruna Bianchi. Per questi storici le nevrosi possono essere manifestazioni psicofisiche di un disagio, conseguente all'orrore circostante, così grande da essere intollerabile per la mente. In questa interpretazione la nevrosi è anche rifiuto e resistenza: rifiuto per una guerra non compresa e non condivisa; resistenza verso un sistema di valori che rende tutti gli uomini uguali in modo impietoso, omologandoli e cercando di annullare la loro personalità e orientandole verso un sistema di violenza che si scontra fortemente con tutto ciò che rende tale l'essere umano. A questa visione si contrappone l’interpretazione di Mario Isnenghi e Giorgio Rochat che sottolineano in particolare l'importanza dell'inquadramento del singolo soldato nell'istituzione militare e nel piccolo gruppo che compone il plotone. La vita di trincea non permette di conservare altra identità se non quella militare e altro ruolo se non quello che viene assegnato dall'istituzione. Questo rigido inquadramento non può essere considerato solo come coercitivo ma anche come portante nuovi valori e soprattutto rapporti umani destinati ad essere il principale sostegno psichico del soldato in trincea.

Nonostante il filone storiografico inerente alla psichiatria militare e alle malattie mentali sia ben lungi dall’essere esaurito, negli ultimi anni la storiografia sta progressivamente spostando l’attenzione verso la popolazione civile. Le esperienze dei civili che subiscono bombardamenti, evacuazioni, internamenti e lutti non possono essere considerate meno fondamentali o traumatiche di quelle dei soldati in trincea e risulta pertanto spontaneo domandarsi se e quali conseguenze abbia lasciato la guerra su queste persone.

Volendo indagare sul “destino mentale” della popolazione civile, il manicomio di Pergine Valsugana (situato vicino a Trento e quindi parte dell’Impero austriaco fino al termine della guerra)  rappresenta un interessante punto di partenza.
Nel marzo del 1916 il manicomio fu evacuato a causa dell’avvicinarsi della linea del fronte e i 509 pazienti presenti nella struttura vennero trasferiti in varie strutture psichiatriche all’interno dell’Impero. I giorni dell’evacuazione sono gli ultimi momenti di vita del secondo manicomio del Tirolo, alla riapertura, nel 1919, Pergine e il suo istituto saranno italiani. 

Dei malati trasferiti solamente 181 fecero ritorno a Pergine, tutti gli altri perirono nei manicomi di destinazione: la mortalità media fu del 66% ma negli istituti di Ybbs e Vienna si aggirò rispettivamente intorno al 90% e 95% mentre a Kremsier fu del 43%.
Tre anni dopo, nel marzo 1919, il manicomio di Pergine riaprì le porte e cambiò il proprio nome in «Ospedale provinciale della Venezia Tridentina». Il “nuovo” istituto si differenziava da quello prebellico per due ragioni principali: l’hinterland e la legislazione. Il neo ospedale provinciale della Venezia Tridentina aveva una giurisdizione molto più ampia rispetto al precedente manicomio tirolese grazie all’inclusione dell’Alto-Adige, prima del conflitto i malati sudtirolesi sceglievano regolarmente di ricoverarsi nell’istituto di Hall in Tirol (vicino Innsbruck), soprattutto per una comunanza linguistica, ma la ridefinizione dei confini statali modificava la situazione obbligandoli a rivolgersi a Pergine.


Testimonianze

Soldati matti o soldati che “fanno” i matti?
Di Alessandro Chebat

La figura del soldato folle, impazzito, smemorato, ammutolito, che non riconosce gli altri ed è divenuto irriconoscibile, fu un prodotto specifico della Grande Guerra, un’espressione inedita del conflitto in corso. I soldati che “impazzivano” sembravano compiere un tentativo di porsi al di là di ogni possibile rapporto umano, nascondendosi e fuggendo nella catatonia. Tutti apparivano in preda ad un terrore costante, implacabile, che si ravvivava a ogni minima occasione e coinvolgeva tutto il corpo. I soggetti visitati avevano in comune una prolungata esperienza di trincea, avevano subìto incessanti bombardamenti, erano stati travolti da esplosioni e sepolti sotto le macerie (il cosiddetto Shell shock), oppure avevano visto cadere numerosi compagni accanto a sé. Ciononostante in alcuni soldati la causa scatenante della follia poteva essere costituita anche da una banale ferita.  

«Quaderni di psichiatria» a commento di uno studio pubblicato su «Paris médical» nel 1916.

Le truppe belligeranti presentano […] una notevole frequenza di quelle reazioni da alienati, che costituiscono anche in tempo di pace la caratteristica della criminalità militare. Tali sono la diserzione, l’abbandono del posto, il rifiuto di obbedienza, la distruzione degli effetti militari, la evasione, l’incendio di fabbricati, la ribellione, le violenze, le vie di fatto, ecc. Esaminando i soggetti di questi reati, il perito psichiatra si trova per lo più dinnanzi a dei frenastenici o deboli di mente, a dei psicopatici confusi, a dei deliranti di interpretazione, a dementi precoci; per cui la imputazione viene sanata per infermità mentale e l’esito della perizia porta il soggetto in manicomio.

Ricostruzione della vicenda di un soldato ventitreenne, trovato nudo a girovagare in una piazza di Milano.

Fu destinato al fronte sin dall’inizio della guerra. Partecipò a tutti i combattimenti di luglio al S. Michele, del Trincerone al 4 luglio e successivo contrattacco durato 37 ore. Pare che sino al 31 luglio siasi comportato da buon soldato. In quella giornata si allontanò senza permesso dal posto in cui era comandato e da allora si sarebbero iniziati i disturbi psichici.

Cartella clinica di Luigi E., falegname di Cortina d’Ampezzo, ferito in battaglia per l’esplosione di una granata nel 1916 e internato prima a Padova e in seguito a Borgo Valsugana.

CAUSA: spaventi. ERED: + padre alcool. ANAMNESI: Il padre alcoolista è morto, la madre vive, è sana, nella famiglia tendenza all'alcoolismo. Fu sempre sano e bravo scolaro. In guerra fu ferito ad un dito per l‘esplosione di una granata. Dal L-I9I6 pauroso, taciturno, allucinato. Proviene dal manicomio di Padova dove si trovava fino dal I.II.19. Lì era in uno stato di avanzata demenza, depresso, apatico a periodi eccitato disordinato ed impulsivo. Demenza precoce ebefrenica. STATO PSICHICO: All’entrata nell‘istituto era quieto stava in compagnia di un infermiere del manicomio di Padova. Senza proferir verbo e senza far resistenza entrò nel reparto, si spogliò. Andò a letto mangiò da sé, si tenne pulito. Alla visita medica giace apaticamente a letto si cura poco dell‘ambiente, alle domanda rivoltegli non risponde, presenta un aspetto inebetito. A tratti scioccamente sorride, invitato far dei movimenti li eseguisce, se gli si presentano degli oggetti li guarda, poi sorride senza parlare, se scoperto non tenta affatto di ricoprirsi. STATO SOMATICO: Statura media un po’ pallido, ben nutrito, cranio appiattito, fronte bassa, pupille eguali reagenti, denti rachitici, polso radiale regolare, unghie rosicchiate, polmoni e cuore sani, all‘estremità inferiori cicatrici da foruncoli, riflessi vivi.

29.XII. Oggi lordò e bagnò a letto.
1922 3.III. Quieto di pochissime parole, si tiene pulito mangia da se non è visibilmente allucinato, non minaccioso.
17. V. Stato invariato demenza profonda non parla si tiene pulito mangia da sé non è pericoloso né minaccioso.
27.VI. Dimesso come stazionario consegnato al fratello.

Tuttavia a fianco della folta schiera di soldati che accusavano sintomi più o meno gravi di squilibri mentali, si affiancava una altrettanto larga schiera di militari che “facevano i matti”, simulando vari disturbi mentali. Rispetto all’autolesionismo, fingersi folli era a tutti gli effetti il modo più efficace per sottrarsi alla guerra. Nel descrivere il proprio stato i soldati sottolineavano in particolare precedenti disturbi accorsi in età infantile e adolescenziale, oppure eventuali tare ereditarie di parenti vicini e lontani. Un soldato veneziano, Vincenzo Ferruccio P. fu Giuseppe, 22 anni, ricoverato presso l’ospedale psichiatrico di Cogoleto (Genova), in un suo memoriale destinato al direttore dell’istituto scriveva:

Nacqui il 27 febbraio 1894, da madre e padre che soffrono di tensione nervosa, mia madre sovente è presa da forti mal di capo da non comprendere, soffre di nevralgie e di giramenti di capo che in circostanze perde completamente la raggione […]. Sua madre è morta da un eccesso cardiaco, e credo che mia madre ne soffre, si arrabbia da cose da nulla ed è presa da scatti nervosi, mio padre è un essere nervoso qualche volta viene preso da accessi che durano dai 20 ai 30 minuti […] gode ottima salute. I miei fratelli soffrono la stessa tensione […] Io dall’età di 17 per una scommessa con amici (per far vedere chi ha il fisico più forte) presi mezzo litro di Rum e dopo qualche ora persi completamente la raggione, e rimasi incosciente circa due giorni, e da quel giorno non presi più nessun liquido alcoolico stetti sempre di salute ottima da quel giorno mi cominciarono i mal di capo da non comprendere più nulla, mi vennero spesso molte emoreggie nasali che in certi casi si dovete rincorrere ad un medico per cessare l’emoreggia mi vennero spesso scatti nervosi, mi arrabbiavo per un no-nulla.

La psichiatria di allora definiva tali aspetti morbosi come “Gentilizio tarato”, ovvero l’ereditarietà dai genitori ai figli dei disturbi mentali o la predisposizione ad essi. Proseguendo il memoriale egli si dilungava nei suoi comportamenti durante il servizio militare, caratterizzati da eccitamenti improvvisi, perdita d’appetito, pianti, fino all’episodio della paralisi facciale e balbuzie emotiva – provocata dall’esplosione di una granata - descritta dai medici come “infermità permanente da causa di servizio”. Lo shock da granata è tale che:

da quel giorno li accessi nervosi venivano di frequente […] il fatto è che venivo meno nel morale […] dopo questa disgrazia di sovente mi arrabbio in un modo tale che quando voglio parlare la mia lingua si paralizza, non potendo esprimermi, mi eccitavo di più e da quell’eccitamento si forma due odi nella gola ed allora ho bisogno di un’applicazione Eletrica per farmi parlare […].

Il memoriale si concludeva con un suggerimento sulla terapia da intraprendere:

in tutte queste circostanze ho compreso che avrei bisogno di calma e di star tranquillo e con questo sistema potro sperare di guarire completamente ma certo che occorera 2, o, 3, anni e per avere la trancuilità bisogna che stia lontano dalle confusioni […] debbo essere in mezzo alla solitudine.

Non è dato sapere se il soldato soffrisse effettivamente di qualsivoglia disturbo mentale o fosse un simulatore, tuttavia è evidente come nella sua condizione di folle egli vedesse una via d’uscita dai pericoli della guerra. Come accennato in precedenza, in questi passaggi è possibile notare quanto la terminologia e gli aspetti basilari della psichiatria ufficiale fossero ormai parte integrante del bagaglio culturale del soldato semplice. La psichiatria di allora affermava come il boom di disturbi mentali registratisi tra i soldati, fossero solo in ultima battuta attribuibili al meccanismo della guerra, bensì generati dalla riottosità tipica delle masse popolari, dalla loro “insufficienza mentale”, dalle tare ereditarie o dalla predisposizione.

Un’altra testimonianza riporta, invece, un palese tentativo di “darsi per pazzo”. Il soldato Ottavio O., anch’egli ricoverato a Cogoleto, scriveva ad una parente:

Cara Gina, Questoggi parto per Cocoletto sicche tu verrai tra 21 giorni ti raccomando di non parlarmi tanto e nemmeno domandarmi come sto. Perché io parlerò pochissimo. Se prima di parlare con me ti facessero parlare col Capitano state attenti coma parlate. E cioè che io accasa avevo sempre paura che mi uccidessero che perfino delle volte stavo rinchiuso in camera dei tre quattro giorni senza uscire e senza parlare con nessuno. E se vi domandasse se da molto che sono malato ditegli che sono sempre stato esquilibrato […] al Capitano non cervate mai di dirgli di farmi uscire.

Nei loro tentativi di fuga dalla brutalità della guerra i soldati tentavano di volgere a proprio favore gli assunti più tipici della psichiatria di allora - pervasa da spunti lombrosiani – secondo la quale dietro a ogni disperato, sofferente, disertore o insubordinato vi era un malato di mente e dietro ad ogni malato di mente vi era una predisposizione o un’ereditarietà genetica, un incidente durante l’infanzia, una bravata finita male, o un’estrazione sociale basse o moralmente deprecabile. Ben presto ebbe inizio una vera e propria “guerra nella guerra” tra simulatori e alienisti, nella quale si intrecciavano i compiti disciplinari propri del mondo militare con quelli terapeutici. Tuttavia erano gli stessi psichiatri a sottolineare le difficoltà nello stabilire un confine certo tra la simulazione e la malattia mentale. Ciononostante, con l’andare del tempo, divenne più difficile essere riformati o esonerati per disturbi psicologici. Tra il 1917 e il 1918 il servizio psichiatrico della I° armata esaminò 3174 casi di soldati che lamentavano malattie mentali, dei quali 864 convulsionari: di questi ultimi solo l’1,3% fu ritenuto malato e tradotto in manicomio, mentre il 74,8% venne ritenuto simulatore e rispedito ai reparti incondizionatamente ed un altro 9,8% avviato anch’esso ai reparti, ma temporaneamente, a causa di affezioni fisiche concomitanti. Da notare inoltre come l’avvio al manicomio non costituisse una certezza di evitare la guerra. Spesso ai primi segni di ripresa dai disturbi, i militari ricoverati venivano rimessi in servizio, a dimostrazione di come la volontà dei medici di rigettare il soldato in battaglia fosse forte quanto il disturbo - vero o simulato - che aveva spinto il soldato stesso a “fuggire” dai massacri quotidiani della Grande Guerra.

In conclusione, appare significativo riportare una citazione tratta dal romanzo di Hasek Il buon soldato Sc'vèik. Durante una conversazione con un commilitone, Sc'vèik afferma con ironia:

La miglior cosa che tu possa fare è di passare per scemo. Quando stavo in guarnigione c’era con noi un furbacchione […] Costui disertò dal campo di battaglia ed avrebbero dovuto fargli un processo […] nel quale sarebbe stato condannato all’impiccagione per viltà, ma lui riuscì a farla franca in una maniera semplicissima. Cominciò a recitare la parte del malato per tare ereditario, […] dichiarò che non aveva disertato, ma che in realtà fin da giovane gli era sempre piaciuto viaggiare ed aveva sempre avuto la passione di fuggire in località lontane. […] Suo padre, aggiunse, era un alcolizzato e si era suicidato prima che egli nascesse, sua madre era una prostituta ed un’ubriacona […] la sorella maggiore s’era affogata, la minore s’era buttata sotto un treno, il fratello era saltato dal ponte ferroviario di Vyšerad, un nonno aveva assassinato la propria moglie e poi s’era cosparso di petrolio e dato fuoco, l’altra sua nonna era andata girovagando con certi zingari e s’era avvelenata in prigione coi fiammiferi […] egli stesso aveva ricevuto un’educazione assai trasandata e fino a dieci anni non aveva saputo parlare, perché all’età di sei mesi, mentre lo fasciavano sul tavolo e s’erano dovuti allontanare un momento, la gatta lo aveva fatto cadere a terra ed aveva battuto forte la testa sul pavimento.

La risposta dell’interlocutore è altrettanto ironica:

Oggi, nell’esercito alle tare ereditarie non ci crede più nessuno, perché altrimenti dovrebbero chiudere nei manicomi tutti gli stati maggiori.

Fonti:
Antonio Gibelli, L’officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri, Torino, 2014
Antonio Gibelli, La grande guerra degli italiani 1915-1918, Rizzoli, Milano, 2014
Mario Isnenghi, Giorgio Rochat, La grande guerra: 1914 – 1918, Bologna, Il Mulino, 2008


Biografia

Giuseppe Ungaretti

Figlio di genitori di origine Lucchese, Giuseppe Ungaretti nacque ad Alessandria l’8 febbraio del 1888. Il padre si era trasferito in Egitto per fare lo sterratore nel cantiere del Canale di Suez. Un lavoro logorante, che lasciò Ungaretti orfano di padre all’età di due anni. Toccò alla madre, una donna di carattere e volontà, mantenere la famiglia grazie al forno che aveva aperto nei sobborghi della città.

Una madre a volte severa, ma dedicata ai propri figli, al punto che nonostante le difficoltà assicurò a Giuseppe e al fratello la giusta istruzione. Fu tra i banchi di scuola della prestigiosa École Suisse Jacot che Giuseppe conobbe la parola scritta, la poesia e i poeti di quella patria lontana - l’Italia - che a lungo rimarrà per lui ‘luogo di immaginazione e non di memoria’. 

Poeti e pensatori dell’epoca furono per il giovane fonte di ispirazione anche attraverso le pagine della rivista La Voce, dove futuristi e intellettuali scrivevano articoli, saggi e poesie. Il lungo e produttivo scambio epistolare con lo scrittore e giornalista Giuseppe Prezzolini è un altro tassello per comporre il puzzle degli anni di formazioni di Ungaretti, vissuti in una città ospitale, luogo di incontri e incroci, ma inadeguata a mettere radici - Alessandria, un porto del mondo. 

Compiuta la maggiore età, dopo un breve periodo di impegno politico in compagnia dell’anarchico e socialista Enrico Pea, nel 1912 Ungaretti parte per Parigi, dove la madre lo iscrisse alla facoltà di diritto della Sorbone. Ma uno spirito libero come quello del poeta non poteva farsi imbrigliare: nella città francese frequentò corsi di tutt’altro genere - dalla filologia alla filosofia -, e fece delle lezioni di Henri Bergson delle vere e proprie lezioni di vita.

Una vita che lo condurrà nel 1914 - quando infine si trasferisce in Italia - a prendere parte alla campagna interventista. Quando il suo paese entrò in guerra ebbe qualche problema a partire volontario, ma nel dicembre del 1915 venne infine arruolato nel 19° Reggimento di Fanteria. Il battesimo del fuoco nel Carso non si fece attendere, e Ungaretti si trovò a lottare per la propria vita, ma anche per la convivenza di due sentimenti contrastanti: la tragedia della morte e la gioia del sopravvivere - quel sentimento ben definito da Cortellessa come lo ‘strazio di chi resta’.

Di queste case non è rimasto che qualche brandello di muro / Di tanti che mi corrispondevano non è rimasto neppure tanto / Ma nel cuore nessuna croce manca È il mio cuore il paese più straziato.

(San Martino del Carso, Valloncello dell’Albero Isolato il 27 agosto 1916)

Durante la Grande Guerra, Ungaretti tenne un taccuino, un diario di pensieri e poesie, nel quale presero forma la sua poetica e i suoi temi. Nel 1916 a Udine, l’amico e commilitone Ettore Serra fece stampare 80 copie di questo taccuino, con il titolo di Il Porto Sepolto. È la prima raccolta ungarettiana, che fece di Giuseppe il ‘poeta della guerra’. 

Un’intera nottata buttato vicino a un compagno massacrato con la sua bocca digrignata volta al plenilunio con la congestione delle sue mani penetrata nel mio silenzio ho scritto lettere piene d’amore / Non sono mai stato tanto attaccato alla vita.
(Veglia, Cima Quattro il 25 dicembre 1915)

Nel versi asciutti e provi di punteggiatura di stampo futurista si narra la sostanza vera del conflitto: gli odori nauseabondi, il boato dei colpi, le ruvide rocce giaciglio dei soldati, il colore rosso della terra che si confonde con il rosso del sangue.

Quella terra che nel 1966 - quando per la prima volta torna sul Carso - fu al centro dell’attenzione del poeta, come racconta Claudio Maraini. ‘Poi, l’occhio strizzato del poeta […] fu attratto da un angolo di terra viva, rossiccia. Il suo piede gli fu sopra: quella, esclamò, era la terra rossa d’allora, quella che produceva il fango in cui per tanto tempo i fanti vissero mescolati!’.

L’esperienza della guerra trasformò Ungaretti e la sua poesia, la fece dolorosamente maturare. Il senso di contentezza ubriaca per l’essere sopravvissuto si mescola al dolore e alla sofferenza. Ungaretti è negli anni del conflitto un ‘dolorante poeta’ e lo resterà per tutta la sua vita.

Alla fine della guerra, Ungaretti pubblicò una nuova antologia, Allegria di naufragi, dove oltre alle poesia del Porto, nuovi brani fecero capolino. Tra le due guerre frequentò ambienti vicini al Fascismo, e nel 1923 Mussolini scrisse la prefazione per la ristampa de Il Porto sepolto.

La vita del poeta della Grande Guerra continuò a trascorrete tra un porto e l’altro: Roma, San Paolo, Parigi, i viaggi, la famiglia, l’università, l’insegnamento ma soprattutto la poesia. Fino al 1970, quando a ‘ poco più di quattro volte vent’anni’ si spense a Milano.

La figura di Ungaretti e la sua poetica sono al centro della costruzione della memoria condivisa della Grande Guerra. A lui è dedicato un parco letterario a Salgado, sul Carso.


Link

https://www.raicultura.it/storia/articoli/2020/05/Scemi-di-guerra-0aec8157-2893-4f6c-9a5c-873c9e4cf5ea.html
https://www.alumniunipd.it/blog/2020/08/06/i-folli-della-grande-guerra-nellospedale-psichiatrico/
http://www.psychiatryonline.it/node/8822


Letture

E.J. Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella Prima guerra mondiale, Bologna, Ed. Il Mulino 2007
B. Bianchi, La follia e la fuga. Nevrosi di guerra, diserzione e disobbedienza nell’esercito italiano (1915-1918), Roma, Ed. Bulzoni, 2001
A. Gibelli, L'officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Torino, ed. Bollanti Boringhieri, 1998
A. Scartabellati, Dalle trincee al manicomio: esperienza bellica e destino di matti e psichiatri nella Grande Guerra, Torino, Marco Valerio Editore, 2008