Le occupazioni militari e il rapporto occupanti-occupati

di Gustavo Corni

Nel corso della Prima guerra mondiale i civili sono stati coinvolti ampiamente, nei territori occupati così come sul "fronte interno".

La Prima guerra mondiale ha visto come principali protagonisti i combattenti, come  ovvio per tutte le guerre. È solo dalla Seconda che l’incidenza dei civili, non combattenti, ha assunto un peso crescente, tanto che la maggioranza delle vittime fra il 1939 e il 1945 si è contata fra i civili. Tuttavia, anche nel 1914-1918 i civili sono stati coinvolti in profondità e in grande numero. Ciò è avvenuto in primo luogo nei cosiddetti “fronti interni”, costituiti dalle popolazioni civili implicate nell’economia di guerra e coinvolte dalla mobilitazione della propaganda. Più direttamente, e dolorosamente, coinvolti nel conflitto sono stati gli abitanti dei territori occupati. 
La forma con cui a partire dalla guerra franco-prussiana del 1870 sono state messe in atto è quello del cosiddetto “governatorato generale”: una struttura gestita dai comandi militari, ma composta anche da personale burocratico civile proveniente dal paese occupante, e che funziona grazie all’apporto di personale in loco. Dal punto di vista dei militari, le occupazioni hanno due finalità principali: in primo luogo garantire la pace e l’ordine pubblico nelle aree retrostanti il fronte, in modo da non ostacolare le operazioni militari, attraverso forme di spionaggio o i franctireurs (franchi tiratori). Si tratta di bande armate formate da civili e da militari dispersi, che operavano già in occasione della guerra franco-prussiana tanto da divenire una sorta di incubo per i tedeschi. Simile era la preoccupazione dell’armata austro-ungarica nel corso della brutale invasione della Serbia nel 1914 di fronte alla minaccia dei Komitadji. La seconda finalità dell’occupazione militare è di garantire, con le misure più idonee, il normale funzionamento delle attività economiche, produttive e commerciali, in modo da poter rifornire le truppe sul fronte e da mantenere livelli accettabili di vita per i civili. Così il mantenimento delle truppe e dei civili sul territorio occupato avrebbe pesato il meno possibile sull’economia della madrepatria. Soprattutto questa seconda finalità ha assunto un peso rilevante nel corso della guerra, a causa delle dimensioni degli eserciti. Le economie nazionali non erano in grado di mantenere milioni di soldati e ufficiali, lontano dalla patria.
Per concretizzare questi obiettivi le potenze occupanti emanarono una serie di disposizioni, ordinanze, divieti per regolare i rapporti con le popolazioni occupate. In molti casi ci si preoccupò di inviare sul posto ufficiali e funzionari dotati di adeguate esperienze e conoscenze linguistiche. Il mantenimento dell’ordine era cruciale per gli occupanti, ma anche per gli occupati, ponendo le condizioni perché le cose continuassero a funzionare come al solito.
Questo modello delle occupazioni è condizionato, nelle singole situazioni che si verificarono nel corso del conflitto, da vari fattori: il valore economico potenziale, più o meno elevato, di un territorio occupato poteva influenzare l’evolversi concreto della sua occupazione, così come la disponibilità, o meno, di una classe dirigente (politica, amministrativa, religiosa) disponibile, per i motivi più diversi, a collaborare con l’occupante, assumendosi una parte della gestione degli affari correnti. Discriminante è stato anche il fattore tempo: le occupazioni avvenute nella prima fase della guerra, quella del Belgio e della Francia nord-orientale, hanno avuto più tempo per svilupparsi e per articolarsi. In molti casi, tale ri-articolazione assunse le forme di un’attenuazione della repressione per cercare modalità meno invasive. Nei territori occupati nella fase terminale del conflitto (il Friuli e Veneto orientale, l’Ucraina) le possibilità di mettere in atto una politica articolata erano ridotte, lasciando spazio all’urgenza di approvvigionare le truppe occupanti o la madrepatria. In generale si può individuare una tendenza degli apparati militari a lasciare il passo a strutture civili. In ogni caso, le finalità politico-militari della potenza occupante avevano la meglio. Va considerata anche la variabile degli eventuali obiettivi di guerra: non in tutti i casi d’occupazione la potenza occupante aveva un progetto chiaro su come sfruttare il territorio occupato. Fra questi, sia nel caso di Ober-Ost che in quello dei territori balcanici occupati dall’Austria-Ungheria, spicca una tendenza a favorire la modernizzazione di un territorio considerato arretrato: nel settore scolastico, sanitario, dell’assistenza, dell’economia, apportando innesti della modernità di cui il paese occupante era portatore. Significativo è il caso dell’Albania, considerata un paese “amico”, della cui modernizzazione le autorità austro-ungariche d’occupazione si sentivano responsabili. Infine, faceva una differenza se il territorio veniva occupato solo da una delle potenze degli Imperi centrali o se, invece, le potenze occupanti erano due, o addirittura tre, come nel caso della Romania. Conflitti di competenza erano in questo caso all’ordine del giorno, complicando la possibilità di realizzare forme incisive di occupazione. Né va dimenticato l’intreccio fra politiche d’occupazione e politica interna negli Imperi centrali. Il peggioramento del trattamento delle popolazioni francesi e belghe dopo il 1917 è legato anche alla necessità di giustificare i tagli nell’approvvigionamento degli abitanti degli Imperi centrali: com’era possibile giustificare che a Bruxelles o a Lilla una famiglia riceveva una razione più alta che a Berlino o a Vienna?
In generale, si può affermare che l’ambizione degli apparati d’occupazione era di coprire tutti gli aspetti della vita collettiva: dalle poste alle ferrovie, dalla produzione agricola al commercio estero, alla polizia, alla cultura, alla stampa, cercando di tenere in piedi gli apparati statali preesistenti. Tale ambizione dovette però fare i conti con fattori cogenti: il tempo, le priorità dettate dalla politica della madrepatria (pensiamo alle divergenti mire tedesche e austro-ungariche in merito alla ricostituzione di uno stato polacco), la necessità di rifornire i militari sul territorio occupato, le esigenze impellenti della guerra. Le forme di autogoverno introdotte nei territori occupati, che avrebbero consentito di risparmiare uomini e risorse e di consolidare una sorta di fiducia verso l’occupante, poterono essere concretizzate solo in modo parziale, o perché la classe dirigente preesistente era in gran parte fuggita (nel caso del Friuli e del Veneto orientale), o perché non era agevole formarne una nuova in breve tempo (come in Albania), o – infine – perché l’autogoverno strideva con la priorità di controllare il territorio occupato, come dimostra il caso del Belgio. Le autorità militari erano poste di fronte a un dilemma. Se la potenza occupante reagiva in modo eccessivamente tollerante, essa incrinava la tranquillità, l’ordine e il proprio status di supremazia; se invece agiva in modo troppo restrittivo, la fiducia e la benevolenza della popolazione cui essa mirava, andavano rapidamente perdute o non potevano nemmeno essere acquisite. Nelle politiche d’occupazione, perciò, lo stacco fra aspettative e realizzazioni fu ampio. Spesso la forza ebbe il sopravvento. Per mantenere il “proprio” ordine gli occupanti non si trattennero da interventi duri: arresti di ostaggi, erogazione di punizioni collettive, deportazioni, condanne capitali.

Il mantenimento dell’ordine era un bene prezioso, sia per gli occupanti che per gli occupati. Per raggiungere tale scopo le autorità d’occupazione erano disposte, in molti casi, a qualunque tipo di violenza. L’ordine interno costituiva la base per una normale prosecuzione delle attività economiche, soprattutto in agricoltura. Ricordiamo che, con l’eccezione di Belgio e Francia occupate, i territori sottoposti a occupazione erano caratterizzati da un’economia prevalentemente rurale. Ma la distribuzione delle risorse alimentari rappresentava un punto di forte attrito: quanto doveva essere sottratto alla popolazione civile per alimentare i poderosi eserciti dislocati ai bordi del territorio occupato? Dove si collocava il “minimo” da garantire alla popolazione civile in modo che non si ribellasse? Come occorreva comportarsi nei confronti della popolazione contadina: la forza, la persuasione, l’offerta di incentivi? In alcuni casi, da Ober Ost al Governatorato della Serbia, le autorità d’occupazione si proposero (anche se con obiettivi diversi) di allestire forme avanzate di agricoltura. Nel primo caso per dare concretezza alla superiorità della Kultur germanica; in Serbia si pensava che una sorta di “socialismo di stato” ante litteram consentisse di aumentare la produttività, a vantaggio di entrambe le parti. Quanto più la guerra si prolungava, tanto più peggioravano le condizioni alimentari negli Imperi centrali. Di conseguenza il comportamento delle autorità d’occupazione in merito al prelievo di prodotti alimentari e altre materie prime diventava sempre più duro. Fino alle politiche di saccheggio, messe in atto (con esiti fallimentari) in Ucraina dopo la pace di Brest-Litovsk. 
La maggior parte delle fonti su cui finora la storiografia ha lavorato è di parte degli occupanti. Anche la questione del comportamento delle popolazioni nei territori occupati viene perciò letta con i loro occhi. Ci furono forme di resistenza, o viceversa di collaborazione? Ma è corretto utilizzare questi schemi concettuali per comprendere i rapporti fra occupanti e occupati, proiettando all’indietro categorie specifiche del successivo conflitto? Prendiamo il caso dei Balcani, occupati dall’Austria-Ungheria. Le fonti attestano la presenza di bande armate, motivo di preoccupazione per gli occupanti. I rapporti classificavano le bande come briganti, una forma tradizionale dell’inciviltà di quei popoli, alle quali in alcuni casi veniva sovrapposto un “mantellino politico”. Lo storico oggi fatica ad andare oltre queste interpretazioni, a causa della carenza di fonti alternative. Se c’è stato, questo “mantellino” ha avuto comunque le caratteristiche di una rivendicazione nazionale; si pensi ai flamingants, o alla Polonia occupata. C’è chi afferma che l’atteggiamento di una piccola fetta della popolazione nei territori occidentali occupati, che sosteneva o faceva parte di reti informative, sia da considerare come dei resistenti. Più diffusa la resistenza morale verso l’occupante –  denominato “invasore” – in Francia e Belgio, almeno in una prima fase, quando era forte la convinzione che l’occupazione sarebbe stata breve. Il calo del morale si aggravò nel 1916 e andò peggiorando fino all’estate del 1917, prima che ricomparissero i sentimenti di risolutezza e di fiducia nella vittoria.  Di contro, alla fine della guerra vennero intentati processi contro supposti collaboratori. Tuttavia, da un lato le definizioni del comportamento degli imputati (“inciviques”, “mauvais conduite”) mettevano l’accento su aspetti moral-patriottici, evidenziando il carattere non-ideologico con cui il tema veniva trattato dai contemporanei. Dall’altro, questa fase di processi fu breve, lasciando il passo a un durevole oblio. In generale, si può affermare che forme di resistenza o di collaborazione con una connotazione politica sono state rare; ha prevalso il tentativo della popolazione civile di tenere testa a una condizione critica.
Per concludere, la storiografia più recente ha sottolineato come le politiche d’occupazione nella Prima guerra mondiale non possano essere considerate in modo schematico: da una parte le vittime (gli occupati) e dall’altra i loro oppressori (gli occupanti); si tratta invece di complesse fasi di conflitto e di ricerca di modi di convivenza fra più soggetti, dotati sì di differenti capacità di imporre il proprio interesse, ma comunque– nei rispettivi limiti – impegnati in questo senso. Due modelli sono stati proposti nella più recente, feconda, stagione di studi: da un lato la Prima guerra mondiale viene interpretata come “guerra totale” ed elementi essenziali di tale caratteristica vengono colti proprio nelle occupazioni militari; dall’altro si sottolinea la continuità con le politiche d’occupazione perseguite dalla Germania nazionalsocialista nella Seconda guerra mondiale. Le eccezioni che emergono da questi studi, però, sono tali e tante da indebolire il valore generalizzante dei modelli stessi. Le occupazioni militari nel 1914-1918 sembrano avere guardato all’indietro, a modelli ottocenteschi di controllo di zone militarmente delicate, così come avere prospettato anche orizzonti d’esperienza per quanto sarebbe avvenuto – su dimensioni e con una radicalità del tutto maggiore – venticinque anni dopo, nella guerra totale condotta dalla Germania, dall’Italia e dai loro nemici.


Gallery

Impiccagione di abitanti di Crouchévatz nella Serbia occupata, 15 aprile 1917 [Le Miroir n. 177]
Una donna porta i giornali ai soldati al fronte, 14 gennaio 1917 [Le Miroir n. 164]

Link

https://encyclopedia.1914-1918-online.net/article/occupation_during_the_war/2014-10-08
https://encyclopedia.1914-1918-online.net/article/occupation_during_and_after_the_war_germany
https://encyclopedia.1914-1918-online.net/article/occupation_during_the_war_belgium_and_france 
https://encyclopedia.1914-1918-online.net/article/collaboration_belgium_and_france


Letture

A. Becker, Dimenticati dalla Grande Guerra: umanitarismo e cultura della guerra, 1914-1918: popolazioni occupate, civili deportati, prigionieri di guerra, Parigi, Noêsis, 1998.
Gustavo Corni, La grande guerra in Veneto e in Friuli. Documenti e immagini dell'occupazione militare austro-germanica nel Nordest, vol.1, Nuovadimensione 2015
Cronache della guerra in casa. Scritture dal Trentino e dal Tirolo (1914-1918), a cura di Q. Antonelli, A. Pisetti, Fabrizio Rasera, Museo Storico Italiano della Guerra, 2019
B. Bianchi, Crimini di guerra e contro l’umanità. Le violenze ai civili sul fronte orientale 1914-1919, Bologna, 2012
A. Becker, Les cicatrices rouges 14-18. France et Belgique occupées, Paris, 2010
T. Scheer, Zwischen Front und Heimat. Österreich-Ungarns Militärverwaltungen im Ersten Weltkrieg, Frankfurt/Berlin, 2009