Economia e Grande Guerra

di Jacopo Calussi

"Il padre della mia amata Elisabeth era a quel tempo un noto, anzi si può dire famoso cappellaio. Per il mio futuro suocero la guerra era arrivata più che a proposito. Era già troppo vecchio per essere richiamato e abbastanza giovane per trasformarsi da serio fabbricante di cappelli in svelto produttore di quei berretti militari che rendono tanto più dei cilindri e costano tanto di meno […] Era appena rientrato da una visita al Ministero della Guerra che aveva avuto per lui esito favorevole. Aveva ottenuto un’ordinazione di mezzo milione di berretti militari. [...] Guardavo solo mia madre e mangiavo e bevevo quello che aveva preparato per me, procurandoselo certo con mille astuzie. Tutte cose che allora non c’erano per nessuno a Vienna: mandorle salate, vero pane di frumento, due stecche di cioccolata, una boccetta di cognac e vero caffè. Lei si sedette al pianoforte […] probabilmente voleva sonarmi Chopin […] Le sue dita scivolarono sui tasti, ma dallo strumento non venne alcun suono […] Premetti io stesso i tasti. Non risposero. Era qualcosa di spettrale. Incuriosito alzai il coperchio. Lo strumento era vuoto: mancavano le corde".
Joseph Roth, La cripta dei cappuccini, i due brani fanno riferimento ad episodi del 1915 e del 1918 a Vienna

La Grande Guerra come primo fenomeno bellico di massa ebbe l’effetto di sconvolgere i sistemi nazionali di produzione, consumo e scambio di servizi e beni.
La sua durata e le sue dimensioni devono quindi essere interpretate come eccezionali, per il continente europeo, rispetto alle esperienze militari del secolo e degli anni precedenti.
La necessità di armare e nutrire una massa enorme di uomini mobilitati per il fronte pesò quindi sulle strategie dei governanti che finirono per imporre delle modifiche radicali all’intera struttura economica della nazione. Tale processo viene spesso identificato con la cosiddetta “mobilitazione nazionale”, ovvero una struttura economica rivoluzionata dal punto di vista della produzione e della distribuzione dei beni, nella quale ogni risorsa nazionale viene indirizzata  allo sforzo bellico, a detrimento generale dei consumi civili.
Facendo un passo indietro, il carattere di eccezionalità portato dallo scoppio del conflitto venne interpretato con un certo ritardo dai ministeri economici ed in generale dai governi degli stati belligeranti. Pochissime furono infatti le voci che indicarono già nel primo anno di guerra esiti vicini a quelli reali per un conflitto di massa che avrebbe portato quasi tutto il continente al disastro del’14-18.

I contrasti coloniali dei belligeranti e la corsa per occupare porzioni del mercato finanziario globale devono essere interpretati come fattori (non esclusivi) ma basilari in relazione alle cause generali del conflitto: il processo di integrazione economica a livello globale - spesso definito come “mondializzazione” - fu bruscamente interrotto dallo scoppio delle ostilità; inoltre l’esito del conflitto imporrà nel dopoguerra una generale modifica dei ruoli economico-finanziari delle nazioni coinvolte, a vantaggio di attori economici neutrali o extra-europei. Tuttavia i caratteri di integrazione economica del ventennio precedente al conflitto peseranno sulla mancanza di comprensione dei possibili esiti bellici. La mondializzazione presupponeva infatti una serie di legami economici tra stati che non rispettava l’appartenenza ai futuri schieramenti della Grande Guerra. Il pensiero economico dominante  nel primo decennio del XX secolo semplicemente non riteneva possibile che uno stato di mobilitazione generale potesse essere mantenuto per un periodo pluriennale: sarebbero infatti mancate le risorse finanziarie ed in generale economiche per alimentare la “macchina bellica”, mentre la distruzione di beni, uomini e risorse avrebbe prodotto modifiche radicali rispetto alla struttura economica, sociale e politica delle nazioni coinvolte.

La novità più evidente per quanto riguarda la materia economica della Grande Guerra fu un’estensione eccezionale delle prerogative statali circa l’organizzazione produttiva nazionale. La guerra ebbe l’effetto di far confrontare direttamente i differenti sistemi industriali degli stati coinvolti nel conflitto, ma anche la loro tenuta a livello di consenso o crisi interna. I governi dei paesi belligeranti ottennero un potere quasi totale sulla gestione delle commesse industriali e dei prodotti agricoli, così da preannunciare una politica che diverrà prassi nei successivi modelli di stato totalitario a partito unico e, con le dovute differenze, nelle stesse democrazie occidentali nel periodo successivo alla crisi del 1929. Attraverso accordi e pressioni indirizzati verso le differenti parti sociali, i governi o i comandi militari avrebbero gestito direttamente la quantità e le scadenze della produzioni di armamenti e di altri beni per fini bellici. La mobilitazione nazionale dell’economia ebbe quindi l’effetto di accrescere enormemente la dimensione di determinate aziende industriali.
Nel caso italiano, dal dicembre del 1915 vennero identificate alcune aziende strategiche per il sostegno dello sforzo bellico. Le imprese così indicate vennero definite “ausiliarie” e avrebbero ottenuto la totalità delle commesse belliche provenienti dai ministeri e dal comando supremo dell’esercito. La crescita esponenziale dei lavoratori impiegati in queste aziende influì sulla struttura interna delle grandi aziende industriali, come l’Ansaldo che passò da 6000 occupati nel periodo prebellico ai 110.000 lavoratori impiegati a vario titolo nel’17. Negli ultimi due anni di guerra in Italia, gli stabilimenti ausiliari davano lavoro a 900.000 tra impiegati ed operai, per lo più inquadrati militarmente; in tale contesto si ebbe in tutte le nazioni coinvolte nel conflitto la prima evidente crescita numerica di lavoratrici, impiegate nelle fabbriche e nei campi per colmare i vuoti lasciati dalla massa di uomini mobilitati nell’esercito.

Per finanziare tale sforzo, i governi dovettero, come già accennato, sfruttare strumenti eccezionali dal punto di vista finanziario, fiscale e monetario. Generalmente, i ministeri dei paesi coinvolti abbandonarono la convertibilità aurea per aderire al cosiddetto “corso forzoso”. La minaccia dell’esaurimento delle riserve auree portò ad indicare “artificiosamente” il tasso di cambio della valuta nazionale. In tal modo si superavano i normali limiti di spesa pubblica, ma al tempo stesso venivano poste le basi per una crescita eccezionale dell’inflazione. Quest’ultima veniva alimentata dallo sconvolgimento del sistema produttivo nazionale, indirizzato quasi esclusivamente alla copertura delle necessità militari, sia nel settore industriale che in quello agricolo. La penuria di beni di consumo non durevoli rappresentò la conseguenza più evidente del periodo bellico in riferimento all’ “economia reale” dei paesi belligeranti.
Tuttavia autori come Jay Winter hanno sottolineato una differenza fondamentale relativa al rapporto esistente tra governi, comandi militari e dei principali settori economici nazionali in stato di guerra. In maniera generale possiamo affermare che le differenze di gestione delle risorse economiche allocate per le necessità militari hanno un carattere trasversale rispetto ai due schieramenti. Gli Imperi centrali, in particolare, sperimentarono una gestione economica “segmentata” o più precisamente non integrata nel rapporto esistente tra fronte interno e fronte militare. I governi di Berlino e Vienna, ma ad essi può aggiungersi a buon diritto la strategia di mobilitazione nazionale zarista, affidarono la gestione della produzione bellica e dei rifornimenti per gli eserciti ad organi dipendenti direttamente dai comandi supremi, escludendo quasi totalmente le personalità politiche ed in generale di governo dalla struttura di distribuzione dei beni. La conseguenza più evidente di tale condizione si concretizzò in un crollo del tenore di vita della popolazione civile dei “tre imperi”, nei quali ad una crescente penuria di beni alimentari, corrispose un sistema nuovo “di privilegio” che vedeva in un ruolo dominante l’esercito ed i suoi ufficiali superiori.

Al contrario, in Francia e nel Regno Unito i ministri responsabili della materia economica riuscirono ad imporre una propria strategia ai comandi delle forze armate, dando vita ad un sistema economico “integrato”, che riuscì quindi ad coniugare le necessità del fronte militare e quelle della popolazione civile. L’esito di questa differenza può generalmente coincidere con una tenuta più stabile del consenso interno ai paesi “democratici” dell’Intesa. Il differente rapporto tra fronte interno e fronte militare influirà direttamente sugli esiti del conflitto, portando negli ultimi due anni di guerra a sconvolgimenti epocali nei paesi in cui mancò del tutto la strategia di integrazione economica. L’Italia si pose in tale contesto in una via mediana, nella quale le prerogative concesse al comando supremo subirono una evidente limitazione nel corso del biennio 1916-17. Il parziale cambio di condotta non impedì lo scoppio di proteste operaie per il crollo del tenore di vita negli ultimi mesi del’17, brutalmente represse dall'esercito regio.
Per quanto riguarda le modalità di finanziamento dello sforzo bellico, esse spaziarono attraverso tre vie, generalmente indicate dall’economista britannico John Maynard Keynes negli anni’20. L’esempio tedesco riguardò imponenti manovre monetarie, da porre alla base di una inarrestabile crescita dell’inflazione interna al territorio del Reich; la politica francese ed italiana si concentrò al contrario su di un massiccio indebitamento statale: la ricerca di capitali in questo senso venne indirizzata sia verso gli investitori “interni” alle nazioni, con l’avvio di diverse campagne per il “credito di guerra” finalizzate alla vendita di titoli di stato particolari, sia verso l’estero, in particolare verso paesi creditori come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. L’Italia nel 1918 vide il proprio debito pubblico salire a 24, 2 miliardi lire/oro; la Repubblica francese tra 1913 e 1918, quadruplicò il proprio debito verso investitori esteri, passando da 32.974 franchi a 124.338. La “terza via” venne identificata da Keynes nell’ampliamento del prelievo fiscale nel Regno Unito, che connotò un’economia particolare come quella di Londra, tradizionalmente caratterizzata dal ruolo di potenza-creditrice.
 

Fondamentalmente, la politica economica adottata per affrontare il conflitto da parte degli stati intervenuti dipendeva da caratteri propri delle economie nazionali (in particolare in relazione al differente grado di industrializzazione) e, su di un piano diverso, dalla stessa posizione geopolitica delle nazioni in guerra.
L’Impero tedesco tentò rapidamente di  “chiudere la partita” con la Francia proprio perché non avrebbe potuto sostenere uno sforzo militare su due fronti. Il fallimento del piano Schlieffen e l’intervento britannico portarono il Reich guglielmino ad essere quasi completamente circondato da potenze dell’Intesa. La superiorità navale britannica, pur contrastata dalle offensive sottomarine tedesche, impose agli Imperi centrali uno stato di assedio prolungato. Nel corso dei primi mesi di guerra le flotte commerciali austro-tedesche scomparvero dalle rotte navali del Mediterraneo e dell’Atlantico, rendendo in tal modo vitale l’afflusso di merci attraverso il naviglio neutrale. Al contempo, i comandi della marina tedesca concertarono una strategia progressivamente rafforzata di aggressione alle flotte commerciali britanniche. Tra 1914 e 1917 si ebbero tre offensive “totali” dei sottomarini germanici contro le rotte mercantili britanniche. In reazione a tale strategia la Royal Navy e le flotte dell’Intesa avviarono dalla fine del 1915 il “blocco totale” delle coste austro-tedesche, imponendo anche ad alcuni paesi neutrali il fermo ed il sequestro di prodotti venduti agli Imperi centrali. In parallelo, la strategia britannica di logoramento si connotò anche per un’offensiva “finanziaria” ai danni di Berlino e Vienna, con l’acquisizione esclusiva di porzioni estese di mercato, in riferimento agli scambi di prodotti agricoli e di materie prime. L’Impero tedesco vide crollare la quantità di beni alimentari disponibili negli anni di guerra: le importazioni di cereali nel Reich passarono da 20.063 tonnellate del 1916 alle 3089 dell’anno seguente, mentre la carne, importata per lo più dai paesi scandinavi, subì una flessione dell’87% nello stesso periodo. L’esito di ciò gravò sul tenore di vita delle popolazioni civili dei due imperi, ma al tempo stesso produsse inquietanti prospettive per l’intero sistema di scambi del periodo post-bellico a livello globale.

La Germania e l’Impero asburgico subirono le più drammatiche conseguenze del blocco delle merci in entrata, con una crisi di malnutrizione e denutrizione che afflisse centinaia di migliaia di persone nei due imperi. Furono infatti stimate in 770.000 le vittime civili tedesche, morte per le conseguenze del blocco navale. Nella capitale asburgica nei giorni immediatamente successivi all’armistizio con le potenze dell’Intesa, si stimava che circa il 10% della popolazione cittadina non avrebbe “superato l’inverno”, anche in virtù di una precisa decisione dei comandi dell’Intesa che usarono l’arma della fame per effettuare pressioni diplomatiche sui governi sconfitti. Le difficoltà di approvvigionamento derivarono quindi dalla strategia militare del nemico e dalla mancanza di coordinamento interno per la gestione delle risorse, in particolare rafforzate in Austria-Ungheria sia da determinate scelte politiche, sia dalla marcata differenza economica ed etnica interna all’Impero. Inoltre, la penuria di beni alimentari fu aggravata dalle devastazioni che, nel caso dell’Europa centrale e orientale, colpirono soprattutto le regioni con la più alta produzione agricola dell’Impero asburgico, come la Galizia. A differenza di quanto avverrà nel secondo conflitto mondiale, le occupazioni di territorio nemico ed il conseguente sfruttamento non poterono coprire neanche parzialmente la richiesta di beni agricoli e di materie prime dell’occupante austro-tedesco.

Simili difficoltà vennero avvertite anche dall’Impero russo che ad una condizione di parziale industrializzazione nazionale (che tuttavia non affliggeva solamente l’impero zarista) univa un sistema di trasporti e distribuzioni dei beni assolutamente critico ed insufficiente per coprire le distanze del territorio dello zar. Tali mancanze economico-produttive ebbero una conseguenza diretta nella crisi del 1917, anno in cui all’abdicazione imposta allo zar Nicola II si aggiunse l’insurrezione e la presa del potere da parte dei bolscevichi di Lenin.
La crisi del 1917 afflisse le potenze dell’Intesa, a partire dagli sconvolgimenti russi e dallo sfondamento del fronte italiano, tuttavia, nello stesso anno, l’intervento statunitense riequilibrò a livello strategico-militare le forze in campo. Come già accennato, l’Intesa poté sfruttare il potenziale economico e finanziario degli Stati Uniti sin dai primi anni di guerra: ad un ampliamento delle risorse finanziarie richieste da paesi come l’Italia, Washington aggiunse una riserva di materie prime e prodotti industriali non confrontabile con il potenziale economico delle potenze centrali.

Più che le sconfitte sul campo di battaglia quindi, le cause della sconfitta degli Imperi centrali possono essere interpretate come derivanti da fattori economici, quali la scarsità dei beni ed il logoramento dell’intera struttura economico-produttiva. Il dispendio di risorse afflisse con modalità simili, lo stesso schieramento dei vincitori che, in relazione alle clausole da imporre agli sconfitti, decise deliberatamente di far pagare l’incalcolabile costo della guerra alle due potenze sconfitte. Le famigerate “riparazioni” imposte in particolare alla Germania vennero calcolate nel 1921 in 132 miliardi di Marchi/oro, una cifra impossibile da coprire per l’economia tedesca, già messa in ginocchio dai 4 anni di guerra ed ulteriormente indebolita dalla perdita di territori industrializzati e ricchi di materie prime come l’Alsazia e la Lorena.


Link

https://www.appuntieconomia.it/storia-economica/leconomia-della-prima-guerra-mondiale
https://www.raicultura.it/webdoc/grande-guerra/sottomarini/index.html#Intro
https://encyclopedia.1914-1918-online.net/article/organization_of_war_economies
https://encyclopedia.1914-1918-online.net/article/organization_of_war_economies_germany
https://encyclopedia.1914-1918-online.net/article/organization_of_war_economies_austria-hungary
https://encyclopedia.1914-1918-online.net/article/organization_of_war_economies_great_britain_and_ireland
https://encyclopedia.1914-1918-online.net/article/organization_of_war_economies_russian_empire
https://encyclopedia.1914-1918-online.net/article/war_finance_italy
https://encyclopedia.1914-1918-online.net/article/war_finance_france


Letture

S. Broadberry, M. Harrison (a cura di), The Economics of World War I, Cambridge University press, Cambridge, New York city, 2005
S. Audoin-Rouzeau e J. J. Becker (a cura di), edizione italiana a cura di Antonio Gibelli, La prima guerra mondiale, volume I, Einaudi, Torino, 2007
A, Cova, P. Galea e A. Leonardi, Il Novecento economico italiano: dalla grande guerra al "miracolo economico" : 1914-1962, Monduzzi, Milano, 1997
B. Bianchi, L’arma della fame, Il blocco navale e le sue conseguenze sulla popolazione civile (1915-1919), rivista online DEP dell’Università Ca’Foscari di Venezia, 2010
[https://www.unive.it/pag/fileadmin/user_upload/dipartimenti/DSLCC/documenti/DEP/numeri/n13-14/03_Dep_13_14_2010Bianchi.pdf]