La lettera di Benedetto XV ai capi dei popoli belligeranti

di Gustavo Corni

La posizione delle chiese assume un valore molto importante a partire dallo scoppio della guerra; in generale si può dire che le chiese nazionali abbiano assunto una posizione fortemente nazionalistica assecondando pienamente le scelte dei governi. Con la loro opera di propaganda e con la presenza capillare tra la gente, le chiese hanno dato un contributo fondamentale alla legittimazione della guerra. Ciò vale soprattutto per le confessioni protestanti e per la chiesa ortodossa, strutturate secondo modelli nazionali e statalistici. Particolarmente difficile era il ruolo del Papa, Benedetto XV. La sua posizione universalistica e di sostegno alla pace cozzava con le dinamiche predominanti nelle singole chiese nazionali. La lettera resa pubblica il 1° agosto 1917 rappresenta il più importante tentativo del Papa di imporre la sua visione a favore della pace; ma essa non diede i risultati sperati.

Uno degli aspetti peculiari della Grande guerra è stato senz’altro quello del largo consenso verso il conflitto, verso le sue motivazioni “ideali” e verso  gli obiettivi di guerra proposti dai governi e sbandierati dalla propaganda. Un consenso che stride con l’andamento del conflitto, l’enormità dei lutti che esso implicava e la sempre più evidente carenza di senso di tanto combattere, di tanto morire.
Quest’apparente contraddizione deve essere spiegata anche tenendo conto del ruolo svolto dagli apparati ecclesiastici, che nei singoli stati belligeranti hanno svolto un ruolo importante nell’influenzare l’opinione pubblica. Fin dalle dichiarazioni di guerra, così come i parlamenti e la grande maggioranza delle classi politiche nazionali, anche il clero e le organizzazioni di massa hanno aderito alla mobilitazione per la guerra. Questo era facilmente spiegabile in quei paesi, come la Germania, la Gran Bretagna, la Russia, la Serbia, nella quale le chiese nazionali erano legate a doppio filo allo stato. Più complessa era la situazione per i cattolici, ad esempio in Francia o in Austria, visto che i loro legami di fedeltà più che verso lo stato sarebbero dovuti andare verso il pontefice romano. Ma i motivi del patriottismo, dell’adesione pronta al clima pro-bellico, laddove – nel caso francese in modo evidente – i cattolici non volevano farsi dare lezioni di patriottismo da una classe dirigente repubblicana ferocemente anticlericale, hanno avuto la meglio. Soccorreva chi fra i cattolici voleva farsi paladino dell’intervento in guerra l’elemento teologico, presente nell’insegnamento cattolico e cristiano: la guerra giusta.
La dottrina insegnava che i fedeli-cittadini avrebbero dovuto comunque accettare i motivi della guerra proposti dai detentori del potere politico che soli avevano la conoscenza di tutti gli elementi atti a giustificare una guerra condotta secondo motivi giusti. Iniziato il conflitto, il cattolico avrebbe dovuto adeguarsi, accettare le spiegazioni date dal potere politico e impegnarsi sotto gli ordini delle autorità civili e militari. I motivi per dichiarare giusta una guerra erano molti, scanditi in modi differenti nei singoli casi: ai cattolici francesi di poteva ben rendere noto che stavano combattendo per sconfiggere gli arci-nemici luterani, mentre per i cattolici austriaci o tedeschi poteva valere l‘obiettivo di combattere per spazzare via il rischio che il proprio paese, se sconfitto, sarebbe stato preda delle deleterie “idee dell’89”: materialismo e secolarismo. E così via. Una volta che una chiesa nazionale aveva affidato al proprio paese il compito di raggiungere tramite la guerra la restaurazione di una pacifica società cristiana, i cattolici erano tenuti a obbedire, mostrandosi soldati e patrioti esemplari.
Nel corso del conflitto, anche con il suo prolungarsi e l’addensarsi di vittime, dall’accettazione dell’obbedienza al potere politico si passò a un’aperta giustificazione della guerra in termini religiosi: la guerra come sacrificio, come una crociata. Un intellettuale laico molto influente, come D’Annunzio, si servì abilmente di questi motivi, fin dalla campagna interventista del maggio 1915.
 

Questa sacralizzazione della guerra, piegata ai fini di un discorso religioso nazionale, era in evidente contrasto con l’azione del Pontefice. Questi aveva avuto, dopo lo scoppio del conflitto, una vita molto “dura”. Era capo della chiesa di Roma, universale, ma anche capo della chiesa italiana, oltre a essere lui stesso un italiano. Una chiesa italiana che aveva avuto non pochi dissidi con lo stato unitario dopo la conquista di Roma nel 1870 e che al momento del dibattito sull’intervento e anche nei mesi successivi dovette fare i conti con uno stato pronto a intervenire con censure e incriminazioni verso i sacerdoti e i vescovi che anche solo sottovoce osavano incrinare l’apparentemente salda unità nazionale a favore della guerra. Una chiesa spesso accusata di essere tiepida e “austriacante”. E Benedetto XV, al secolo Giacomo della Chiesa e pontefice dal settembre 1914 doveva fare i conti con una chiesa che per consolidare la propria legittimazione nazionale si era schierata più o meno apertamente dalla parte della guerra. Pensiamo a figure come padre Agostino Gemelli, futuro fondatore dell’Università cattolica, confidente del molto religioso generale Cadorna. Gemelli che fra i primi definì i tratti psicologici tipici dell’obbedienza nell’esercito di massa. O padre Giovanni Semeria, fra i più ferventi sostenitori della sacralizzazione della guerra. Benedetto XV era dovuto intervenire di frequente per censurare la torsione nazionalistica imposta da molti sacerdoti alle preghiere per la pace, dal Pontefice caldamente raccomandate. Preghiere per la pace trasformate in preghiere per la vittoria.
La celebre nota inviata dal papa ai governanti dei paesi belligeranti il 1. agosto del 1917, dopo un tormentato silenzio, contiene due aspetti di grande rilievo: in primo luogo un appassionato invito ad avviare trattative di pace, che partono dal principio della rinuncia a tutte le conquiste territoriali conseguite finora e che riportino allo statu quo. Benedetto XV enuncia un programma che preannuncia i wilsoniani quindici punti dell’anno successivo: dalla libertà dei mari, al disarmo concordato, al riconoscimento delle aspirazioni dei popoli inseriti negli imperi. Dall’altro, la più celebre frase della nota: “la guerra ogni giorno più apparisce inutile strage” è di grande rilevanza teologica. Se la guerra è diventata solo una strage inutile, veniva a cadere la ragione stessa che aveva legittimato il ricorso alla guerra. Se la suprema autorità della chiesa cattolica proclamava l’inutilità della guerra, la guerra non poteva più aiutare a ristabilire il giusto e cristiano ordine della vita collettiva che il nemico aveva violato. Appare anti-storico accusare – come fecero i comandi militari - Benedetto XV di essere stato, assieme ai socialisti, l’ispiratore della “ribellione” contro la guerra che pochi mesi dopo si sarebbe consolidata nella rotta di Caporetto. Tuttavia, la nota del Papa rappresentava un’incrinatura di non poco conto nella coerenza del discorso ecclesiastico a legittimare la guerra.


Gallery

Benedetto XV Pontefice della pace. 1922 [AF MSIGR M03/0132]
Lettera di Benedetto XV. La Voce del Pastore (periodico religioso settimanale). 1915 [AF MSIGR M02/0536]

Testimonianze

La vita nelle trincee del Carso e dell’Isonzo

Durante la Grande Guerra, la trincea divenne simbolo assoluto della tragica esperienza bellica di milioni di uomini. Fu con il primo conflitto mondiale infatti che l’interramento dei soldati diventò pratica usuale, modificando significativamente le modalità di scontro: non più brutali ma brevi battaglie, bensì lunghi e violentissimi combattimenti su spazi ampi e contro un nemico spesso invisibile. Sul Carso e lungo l’Isonzo gli Italiani, inizialmente in svantaggio rispetto all’avversario per la mancanza di armi, la scarsa conoscenza del territorio e le posizioni sfavorevoli su cui erano attestati, opposero, a partire dall’inverno del 1915, un’efficiente linea difensiva ad un già sviluppato sistema di trinceramenti austro-ungarici.

La progressiva evoluzione delle opere di fortificazione italiana.
Leo Pollini, tenente di fanteria, brigata Ferrara.

Da principio furono i sassi e le sporgenze naturali del terreno, dietro a cui, dopo la breve follia dell’assalto, gli uomini schiacciarono la testa, toccando con la faccia il terreno, saggiando in bocca la terra rossa e premendo, senza dir parola, la ferita nel fianco contro gli spuntoni della roccia che entravan quasi nella carne.
Poi si innalzarono i piccoli muretti, tra buca e buca di granata, come una linea di comunicazione tra stazioni diverse
[…].
Poi arrivò il sacchetto a terra.
[…] Le trincee si innalzarono e furon più solide; a ridosso di esse cominciarono a sorgere i primi ricettacoli, case rudimentali, focolari trogloditici e primitivi. Si perfezionarono di mese in mese; […] gli interni si allargarono, le pareti si abbellirono, i soffitti si alzarono in corrispondenza delle trincee e si poté stare comodamente, dove prima pareva di dover soffocare in tre minuti.
Si tracciarono i camminamenti, prima diritti e rudimentali da passarci solo la notte, poi defilati e coperti
[…].
Poi vennero le caverne.
[…] I Comandi in principio erano contrari, perché ritenevano che il soldato vi invilisse. Eppure quante volte, lasciato un uomo alle armi, vi ho rifugiato durante i bombardamenti gli altri, serbandoli intatti al momento decisivo della lotta. […] V’erano alloggiati per il solito i Comandi, le riserve, i posti di medicazione.

La vita di trincea fu senza dubbio per i soldati un’esperienza sofferta e scioccante sotto innumerevoli punti di vista.

L’impatto visivo con la prima linea.
Carlo Salsa, tenente di fanteria, brigata Palermo.

Non ci si può muovere; questa fossa in cui siamo è ingombra di corpi pigiati, di gambe rattratte, di fucili, di cassette di munizioni che s’affastellano, di immondizie dilaganti: tutto è confitto nel fango tenace come un vischio rosso.

[…] Un bordo della trincea è tutto rigonfio di morti che si mescolano in un viluppo confuso: rintraccio faticosamente le figure umane ad una ad una.
[…] Cautamente, con un bastone, sollevo un telo da tenda che ricopre un groviglio: un’ondata fetida mi ributta: ma, nell’attimo, ho potuto intravvedere cinque o sei morti che fissavano attoniti il fondo di una buca aperta in mezzo a loro: solo uno avanzava la faccia livida, levando verso il cielo lo sghignazzo delle mascelle denudate.
[…] Dalle pareti pantanose della trincea affiorano qua e là scarpe chiodate, involti rigonfi, dita adunche di gente sepolta o sprofondata lentamente nella terra: anche il fondo su cui siamo sdraiati ha ogni tanto delle gibbosità più sode.
[…] Il terreno circostante è seminato di spoglie umane che s’aggrovigliano, s’allineano, s’ammucchiano […].
Elmetti sforacchiati, fucili, cappelli piumati di bersaglieri, e un seminio di cartoline pavimentano il terreno.

[…] Vicino, un tronco strigliato dalle percosse, inclinato come in un continuo sforzo di fuga, regge, sulla sommità di un ramo reciso, qualcosa che gocciola in brandelli.
E su, più in alto, tra i morti insepolti, i sepolti vivi: le nostre buche imbottite di fanti, minuscole ampolle di vita in quel cimitero senza nome.

La costante presenza dei cadaveri.
Alfredo Graziani, tenente di cavalleria, aggregato alla brigata Sassari.

Per quanto si faccia di tutto per seppellire, al più presto possibile, i caduti, la loro quantità è tale che più se ne porta via e più ce n’è; ne rimane sempre tanti! E col sole cocente, di giorno, e con la pioggia dirotta, di notte, tutti questi cadaveri vanno disfacendosi con una rapidità inverosimile.
È un fetore insopportabile, un lezzo penetrante ed ammorbante.
[…] Abbiamo invocato, come una grazia, l’invio di alcuni quintali di calce o di altro; il Comando di Corpo d’Armata ha risposto che non ha nulla, e si seppelliscono i cadaveri a fior di terra, pur di nasconderli e sottrarli al morso delle mosche fameliche e innumerevoli, ma è lo stesso. Tutta la zona non è che un vastissimo cimitero; mangiamo fra i morti; dormiamo sui morti, facciamo vita comune coi morti.    

L’incessante contatto con i pidocchi.
Salvino Diana, soldato semplice, telefonista del Genio.

Intanto, per adesso, erano arrivati i pidocchi, quei bastardi! Non ti lasciavano più vivere! Un giorno al comando c’era un tenente-colonnello che mi dettava un fonogramma; quest’uomo andava avanti e indietro e io capivo che aveva tanti pidocchi anche lui. A un certo s’è seduto su una panchetta d’assi e ha chiamato l’attendente, gli ha dato un bastone che teneva in mano e ha detto:
“Gratta”; quello ha infilato il bastone nella schiena e ha cominciato a grattare.
[…] Ma tanto eravamo tutti pieni, soldati e ufficiali; almeno i pidocchi non facevano differenze.

La temibile insidia del colera.
Amleto Albertazzi, sottotenente di fanteria, brigata Bisagno.

Intanto sulle trincee intrise di sangue una nuova sciagura si abbatte: serpeggia nelle file un nemico ancor più terribile: il colera. Già è sorto, laggiù, fra i dirupi del monte, un vasto attendamento: il lazzaretto.
[…] Dalle tende salgono pietosi e laceranti i gemiti dei colerosi e lugubri risuonano nella valle.

Il supplizio della sete.
Alfredo Graziani, tenente di cavalleria, aggregato alla brigata Sassari.

Avevo una sete d’inferno; ho chiesto la borraccia ad un soldato.
“Su tenè, boida est, non d’hamos; tota die cun mesa ghirba semus”.

[Signor tenente, è vuota, non ne abbiamo; siamo tutta la giornata con mezza ghirba]
Pazienza! Mi son messo a mordere l’ennesima sigaretta, illudendomi di aver bevuto.

L’attesa del rancio.
Carlo Orelli, soldato semplice, brigata Siena.

Spesso il rancio non arrivava puntualmente perché gli addetti che dovevano rifornire le prime linee venivano dalle retrovie dove si trovavano le cucine da campo. Per arrivare fino a noi spesso dovevano correre in campo aperto e venivano quindi presi di mira dai cecchini. Molte volte venivano feriti o peggio rimanevano uccisi.
Non si poteva quindi correre il rischio di perdere il rancio e soprattutto il vivandiere addetto. Così si saltava spesso il pasto e non c’era niente da fare. Bisognava soltanto aspettare con pazienza il prossimo turno di rancio e sperare che andasse meglio. Si rischiava di rimanere anche per giorni interi senza mangiare. In guerra dovevamo sempre arrangiarci per sopravvivere. Se non era per le cannonate, era per procurarci qualcosa da mangiare.

Le insidie del clima.
Mario Muccini, tenente di fanteria, brigata Caltanissetta.

I soldati stramazzano sul fondo ghiacciato del camminamento, il freddo è intenso specialmente di notte e non c’è modo di scaldarsi. Qualcuno demolisce il baracchino e brucia le tavole.
I piedi sono sempre bagnati e senza calze (…).
Il numero dei soldati con gli arti congelati sale ad una cifra impressionante; il reggimento si distrugge giorno per giorno in questo inferno bianco, si sfascia, si consuma nella neve e nel fango. Il fante non ride, non sorride più. Nel suo volto sembra cristallizzato l’incubo di un dolore cosmico.

Un abbigliamento sovente inadeguato.
Carlo Orelli, soldato semplice, brigata Siena.

Il nostro abbigliamento era molto leggero, la divisa era di cotone e non avevamo la mantella, perché quando io ero al fronte era estate e faceva molto caldo. Anche le scarpe non erano di cuoio, ma di tela leggera. Ai polpacci avevamo legate le fasce, di cotone o di lana a seconda della stagione.
Quando partimmo da Napoli venimmo affardellati con tutto l’armamento di guerra.
All’inizio avevamo in dotazione il berretto e solo dopo anche l’elmetto.

La costrizione all’immobilità diurna.
Alfredo Graziani, tenente di cavalleria, aggregato alla brigata Sassari.

Il “budello” è preso da tutte le parti; è una posizione che, in gergo trinceristico, si definisce “puzzolente”.
[…] Chi vi entra deve strisciare, chi vi abita deve continuamente rimanere accovacciato e costantemente desto. Vi si penetra puliti e se ne sorte rossi di fango, con le membra indolenzite e con le ossa rotte.
[…] È il sepolcro momentaneo dei vivi!

Il febbrile lavoro notturno.
Paolo Caccia Dominioni, sottotenente del Genio Pontieri e, successivamente, comandante di una sezione di Lanciafiamme.

Mancanza di sonno ed eccesso di fatica, barbe lunghe, facce emaciate: a poco a poco stiamo diventando simili ai famosi mendicanti delle stampe di Callot.  

In un teatro devastato dalla violenza incontenibile della guerra, la trincea divenne la casa di milioni di soldati, che vi dovettero sopportare, loro malgrado, patimenti e sofferenze inenarrabili.   

Bibliografia
Albertazzi Amleto, L’inferno carsico, Bologna, Cappelli, 1933, p. 118.
Bultrini Nicola, L’ultimo fante – La Grande Guerra sul Carso nella memoria di Carlo Orelli, Chiari (Bs), Nordpress Edizioni, 2004, pp. 73-74, 25.
Caccia Dominioni Paolo, 1915-1919 diario di guerra, Milano, Mursia, 1996, p. 104.
Gioanola Elio, La Grande Guerra di un povero contadino, Castel Bolognese (Ra), Itaca, 2014, p. 57.
Graziani Alfredo, Fanterie sarde all’ombra del tricolore, Sassari, Edizioni Gallizzi, 1987, pp. 41, 79, 123.
Muccini Mario, Ed ora, andiamo! Il romanzo di uno “scalcinato”, a cura di Sergio Spagnolo, Basaldella di Campoformido(Ud), La Tipografica srl, 2013, pp. 141-142.
Pollini Leo, Le veglie al Carso, Milano, Amatrix, 1928, pp. 113-115.
Salsa Carlo, Trincee. Confidenze di un fante, Milano, Mursia, 1982, pp. 64-67.


Biografia

Erwin Rommel

Erwin Rommel nacque nel 1891 nella cittadina di Heidenheim an der Brenz (nel Baden-Württemberg) dall’insegnante di scuola superiore e successivamente preside Erwin e da Helene Lutz. Una tipica famiglia della media borghesia colta. La propaganda nazionalsocialista costruì una storia famigliare molto diversa, presentandolo come proveniente da un ambiente operaio e quindi come modello della possibilità per i figli delle classi sociali inferiori di assurgere alle carriere più elevate, nel Terzo Reich hitleriano.

Entrò giovanissimo nella carriera militare per pressione del padre. La sua passione sarebbe stata però quella di diventare ingegnere aeronautico. Nel 1910 entrò come cadetto nel reggimento di fanteria nr. 6 dell’esercito del Württemberg. Va ricordato che l’impero guglielmino continuava a essere un stato federale e che i singoli stati avevano ciascuno un proprio esercito.
Allo scoppio della guerra, con il suo reggimento di fanteria e con il grado di tenente combatté sul fronte occidentale con grande valore, conseguendo due croci di ferro: una di prima e una di seconda classe. Passato a comandare una compagnia nel battaglione württemberghese di alpini, partecipò alla campagna dei Vosgi e poi a quella in Romania. Alla vigilia di Caporetto il battaglione di Rommel venne aggregato all’interno della XIV armata austro-tedesca appositamente costituita per l’offensiva e comandata dal generale germanico Otto von Below. Partecipò così all’offensiva in una posizione delicata. Con la compagnia da lui comandata compì una profonda avanzata nello schieramento italiano, conquistando il Monte Matajur e arrivando fino a Longarone. L’azione offensiva, successivamente raccontata da Rommel nel suo libro di memorie Infantrie greift an (1937, edito in italiano con il titolo: Fanteria d’attacco, Gorizia, 2004), gli valse la massima onorificenza militare: l’Ordre pour le mérite e la nomina a capitano. Terminò la guerra in una comoda posizione nei comandi arretrati.

Durante la profonda infiltrazione dietro le linee italiane, Rommel e i suoi 150 alpini del Württemberg fecero quasi 9000 prigionieri e un ricco bottino di guerra. Negli anni seguenti, anche grazie al grande successo di pubblico del libro, le tattiche di penetrazione in profondità da lui descritte con vivacità di stile, e insegnate alla scuola di fanteria di Dresda,  gli valsero la fama di tattico innovativo e audace (il libro veniva studiato nelle accademie militari di mezzo mondo), pronto ad assumersi in prima persona la responsabilità del comando e a lasciare spazi di iniziativa ai sottoposti e alla truppa. Allo stesso tempo, la narrazione di Rommel riflette una umana partecipazione verso le truppe italiane, lasciate senza ordini e mal organizzate dai loro comandanti, ma comunque coraggiose e leali.

Nel primo dopoguerra, come molti altri ufficiali, Rommel risentì dello shock della sconfitta e della drastica riduzione del ruolo delle forze armate in seno alla società tedesca. Ma continuò la sua carriera militare, con fedeltà verso la repubblica. L’avvento al potere del nazionalsocialismo fu salutato da Rommel in modo positivo.  Venne così in contatto con Hitler, dal quale fu affascinato. Il suo eroismo in guerra, lo spirito dinamico, intollerante verso le regole, le sue idee tattiche anticonformiste, imperniate sul movimento di unità autotrasportate in collaborazione con i carri armati, lo fecero diventare un beniamino di Hitler e della propaganda. D’altra parte, con il Führer egli condivideva un malcelato disprezzo verso la casta degli alti ufficiali prussiani, perlopiù nobili. Nei tardi anni Trenta ebbe il comando del battaglione addetto alla protezione di Hitler. A questi, promosso nel frattempo a maggiore generale, Rommel chiese di poter avere il comando di una divisione di Panzer. Fu accontentato. Per la campagna di Francia gli fu affidata la 7a divisione Panzer, con la quale operò con azioni rapide e incisive sul fronte settentrionale. Spesso ignorando gli ordini superiori Rommel conquistò alla sua unità la definizione di “divisione fantasma”. Terminò la campagna con una prestigiosa medaglia: la Croce di cavaliere.

Al generale più popolare della Wehrmacht Hitler fece ricorso nel febbraio 1941 quando decise di mandare un contingente dotato di mezzi moderni in Africa settentrionale per dare una mano agli italiani, costretti nei mesi a una profonda ritirata: l’Afrikakorps. Composto da due divisioni corazzate, il corpo sarebbe stato alle dipendenze dei comandi italiani. Ma nei due anni seguenti Rommel agì sempre di propria iniziativa, provocando non poche proteste da parte dei comandi italiani in Libia. Ma le vittorie stavano dalla sua parte: la riconquista della Cirenaica e di Tobruk e l’avanzata (luglio 1942) fino a El-Alamein, località situata a poco più di 100 km di distanza dall’agognato canale di Suez, che era l’obiettivo strategico della campagna d’Africa. Hitler gli conferì il bastone di feldmaresciallo, ma non gli mandò le truppe e i mezzi che Rommel chiedeva con forza, per concludere vittoriosamente la campagna.

Una serie di vittorie conseguite attraverso audaci penetrazioni in profondità con colonne motorizzate e corazzate, cogliendo di sorpresa le difese avversarie. Nella seconda e decisiva battaglia di El Alamein, combattuta dal 23 ottobre al 3 novembre sotto la pressione dell’8. Armata del generale Montgomery, dotata di mezzi molto più consistenti e che godeva della supremazia aerea, Rommel decise la ritirata, che coinvolse anche le truppe italiane. Da Berlino era giunto un perentorio ordine di non ritirarsi, ma Rommel disubbidì, consapevole che la situazione era compromessa. Nel frattempo (8 novembre) truppe britanniche, americane e del Commonwealth erano sbarcate sulle coste algerine. La vittoria alleata era solo questione di tempo. Per evitare a Rommel una resa sul campo, il 6 marzo su ordine di Hitler venne riportato in patria. Solo nei mesi seguenti l’opinione pubblica, che aveva verso il brillante generale una venerazione, venne a sapere della sua messa in salvo, accompagnata dalla più alta onorificenza mai attribuita: la croce di cavaliere, con brillanti, corona d’alloro e spade.

Nei mesi seguenti gli fu affidato il ruolo di comandante delle truppe tedesche in Italia. In questa veste non solo preparò l’occupazione del territorio italiano in vista del probabile armistizio, che fu infine reso noto l’8 settembre. Ma coordinò anche la cattura di ciò che restava delle forze armate italiane e la loro deportazione.
Da novembre 1943 fu trasferito nella Francia settentrionale, al comando della Heeresgruppe B, a nord della Loira. Gli fu anche affidata la supervisione delle opere difensive del Vallo Atlantico. Lo sbarco alleato in Normandia lo colse in una breve licenza a casa, per riprendersi da una malattia. Il 17 luglio la sua vettura subì un mitragliamento da parte di un caccia britannico. Rommel riportò alcune ferite. Il 20 luglio si ebbe il tentativo di attentato contro Hitler, accompagnato da un maldestro colpo di stato, represso in poche ore. Quale fu il ruolo di Rommel nel complotto non è chiaro. Per molto tempo è stato inserito fra i vertici del complotto e si è sostenuto che nel futuro governo post-hitleriano avrebbe dovuto svolgere un incarico importante. In anni più recenti ha prevalso la tesi che egli non avesse approvato il colpo di stato o addirittura che non fosse neppure a conoscenza della volontà di uccidere Hitler. La vedova aveva scritto che Rommel era stato fino all’ultimo un soldato, che obbediva agli ordini e che non si occupava di politica. Fatto sta che agli occhi dei vertici nazionalsocialisti Rommel doveva essere eliminato. Gli fu offerta la possibilità di un suicidio, mascherato da cause naturali, per non compromettere moglie e figli. L’alternativa era un processo davanti alla corte marziale per alto tradimento. Il 14 ottobre 1944 Rommel si suicidò. Al pubblico venne data la notizia di una morte per emorragia cerebrale. Nei giorni seguenti si svolsero i solenni funerali. L’onore era salvo. Nei libri di storia militare Rommel è generalmente considerato uno dei tattici più abili e intelligenti nella storia di tutte le guerre.

 

Lev Trotsky

Lev Trotsky o Lev Trockij, pseudonimo di Lev Davidovič Bronštejn, nacque in Ucraina meridionale, nel villaggio di Janovka, da David Leontovič Bronštejn e da Anna L’vovna Životovskaja, in una numerosa famiglia di origine ebraica. Il padre coltivò con profitto una proprietà terriera, grazie alla quale raggiunse un buon tenore di vita. Ancora bambino, fu mandato a studiare ad Odessa, dove venne ospitato da un nipote della madre, Moisej Spencer, intellettuale progressista. In questa città frequentò l’Istituto tecnico San Paolo e si rivelò uno studente dotato.

Nel 1896 si trasferì a Nikolaev per concludere gli studi. Si diplomò nel 1897 e, in poco tempo, divenne un acceso sostenitore del socialismo russo. Si avvicinò alla dottrina marxista a causa dell’influsso esercitato su di lui da Aleksandra Sokolovskaja che, nel 1900, diverrà sua moglie e lo seguirà durante la deportazione in Siberia. A diciotto anni Lev fondò l’Unione russa meridionale dei lavoratori, organizzazione operaia socialdemocratica sciolta dalle autorità per i suoi contattati con associazioni rivoluzionarie.
Imprigionato ad Odessa, nel dicembre 1899 fu condannato a quattro anni di esilio in Siberia. Nell’autunno 1900 prese dimora nei pressi del lago Baikal. Nel 1901 e nel 1902 nacquero le figlie Zinaida e Nina. Nell’estate 1902 fuggì dal luogo del confino, col falso nome di uno dei suoi carcerieri di Odessa, ovvero Trockij.

Dopo aver lasciato moglie e figlie, a Londra entrò a far parte del gruppo di socialdemocratici responsabili in Russia del giornale Iskra e tra i quali si trovava Lenin. Nel 1903 collaborò con l’Iskra di Parigi, dove conobbe la sua compagna di vita, Natalia Sedova, studentessa russa alla Sorbona.
I buoni rapporti con Lenin si deteriorarono con l’avvento del II Congresso del Posdr, quando Trotsky si schierò con i menscevichi contro i bolscevichi. Già al termine del 1904 però si staccò dai primi, colpevoli a suo avviso di trascurare gli interessi del partito. In questo periodo egli elaborò la teoria della rivoluzione permanente: la classe operaia avrebbe avuto ruolo fondamentale nella demolizione del regime assolutistico. Il proletariato avrebbe acquisito potere nelle città, provocando uno stato costante di rivoluzione, che dalla Russia si sarebbe estesa a livello internazionale.
In seguito agli avvenimenti della “Domenica di sangue” Lev, travestito da militare, rientrò in Russia, dove divenne importante esponente del Soviet di Pietroburgo. Il coinvolgimento nello sciopero generale di ottobre, il sostegno alla rivoluzione armata del 1905 e la presidenza del Soviet ebbero come conseguenza l’arresto e la condanna all’esilio a vita.
Nel 1907 fu deportato nuovamente in Siberia, ma durante il tragitto fuggì. Visse a Vienna fino al 1914 insieme alla Sedova e ai loro due figli, Lev e Sergej, nati nel 1906 e nel 1908. Qui lavorò quale corrispondente per il quotidiano Kievskaja Mysl’ e per altri giornali, mentre nel 1908 fondò la Pravda.

Scoppiata la guerra, soggiornò in Svizzera, in Francia e a New York. Nel maggio 1917 fece ritorno in una Russia sconvolta dalla rivoluzione. Nel frattempo, rientrato in patria dall’esilio, Lenin espose le sue Tesi di aprile, in cui proponeva di abbattere il governo provvisorio e di fare del Soviet un organo del potere rivoluzionario. Trotsky, d’accordo con lui, divenne leninista e garantì numerose adesioni all’ideologia bolscevica grazie alle sue qualità oratorie. A luglio i bolscevichi furono considerati fuori legge poiché fautori di una dimostrazione armata contro il governo provvisorio: Lenin scappò in Finlandia per non essere arrestato, mentre Trotsky fu imprigionato tre giorni prima del IV Congresso del partito bolscevico, durante il quale venne eletto membro del Comitato centrale. Verso metà settembre, Lenin decise che il partito, tramite una rivolta armata, avrebbe dovuto prendere il potere nelle proprie mani: Trotsky si dichiarò favorevole ad una tempestiva rivoluzione socialista in Russia. Uscito di prigione, il 23 settembre fu eletto presidente del Soviet di Pietrogrado ed accettò di dirigere il Comitato militare rivoluzionario (Cmr). Il 24 ottobre, quando le forze governative irruppero nella redazione di un giornale bolscevico per bloccarne la pubblicazione, Lev ordinò a guardie rosse e reggimenti regolari di occupare le zone strategiche della capitale, che presto fu nelle mani degli insorti. Venne quindi approvato un nuovo governo, il SovnarKom, diretto da Lenin ed avente Trotsky quale commissario agli Esteri. Egli dovette affrontare il problema del decreto sulla pace con cui i bolscevichi promettevano di chiedere un armistizio a tutte le potenze belligeranti. Nel dicembre 1917 a Brest-Litovsk ebbero inizio i negoziati di pace, ma le condizioni tedesche si rivelarono assai dure. Nel febbraio 1918 i Tedeschi ripresero l’offensiva sul suolo russo, perciò Lenin fu costretto ad accogliere le condizioni da loro dettate, col dissenso di Trotsky, che si dimise dalla carica di commissario agli Esteri.

Diventato commissario alla Guerra e capo di una nuova Armata Rossa, impose una ferrea disciplina militare e reclutò esperti ex ufficiali zaristi. Dal 1919 divenne uno dei cinque membri del Politbjuro. Sostenne i drastici provvedimenti economici e sociali presi da Lenin e noti come “comunismo di guerra”. Il suo programma di militarizzazione del lavoro e di trasformazione dei sindacati in parte integrante dello Stato operaio gli scatenò una dura opposizione, ma egli difese imperterrito il suo approccio autoritario ai problemi.
In seguito alla morte di Lenin nel gennaio 1924, Trotsky si ritrovò isolato rispetto al triumvirato formato da Zinov’ev, Kamenev e Stalin. Alla sua teoria della rivoluzione permanente si oppose quella del socialismo in un solo paese di Stalin. Nel 1926 Lev si mise a capo dell’opposizione di sinistra contro la maggioranza del Comitato centrale. Divenuto apertamente contrario alla linea staliniana, fu destituito dalla carica di membro del Politbjuro, espulso dal partito ed allontanato per sempre dalla Russia.
Fu in Asia centrale, in Turchia, in Francia e in Norvegia, fino a quando, nel 1937, si stabilì in Messico.
Stalin voleva eliminare il proprio indefesso accusatore. Il primo tentativo, nel maggio 1940, fallì. Il 20 agosto dello stesso anno invece Lev fu colpito alla testa con una picozza da Ramon Mercader, agente segreto dei servizi di sicurezza sovietici, e morì venti ore dopo in un ospedale messicano.

Bibliografia
Corni Guistavo, Fimiani Enzo, Dizionario della Grande Guerra, L’Aquila, Textus Edizioni, 2014
Di Biagio Anna, Lev D. Trockij, Firenze, Giunti Lisciani Editore, 1995


Link

https://www.vatican.va/content/benedict-xv/it.html
https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2022-01/anniversario-100-anni-morte-benedetto-xv.html
https://www.raiscuola.rai.it/storia/articoli/2022/01/Papa-Benedetto-XV-e-la-Grande-guerra-765495d9-df47-4500-9348-499d6124b0c7.html
https://www.limesonline.com/benedetto-xv-santa-sede-prima-guerra-mondiale-e-la-ricerca-di-una-pace-concordata/126433
https://www.famigliacristiana.it/articolo/dalla-neutralita-al-fronte-i-cattolici-e-la-prima-guerra-mondiale-.aspx


Letture

Antonio Scottà, Papa Benedetto XV. La Chiesa, la grande guerra, la pace (1914-1922), Storia e Letteratura, 2009
Bruno Bignami, La Chiesa in trincea. I preti nella grande guerra, Salerno, 2014
Daniele Menozzi, La Chiesa italiana nella grande guerra, Morcelliana, 2015