La Battaglia del Piave

di Alessandro Chebat

I giovani soldati della classe 1899 hanno avuto il battesimo del fuoco. Il loro contegno è stato magnifico. […] Andavano in prima linea cantando. Li ho visti tornare in esigua schiera. Cantavano ancora.
Ordine del giorno firmato dal generale Armando Diaz il 18 novembre 1917

La grande battaglia nel Veneto iniziata dall’esercito austro-ungarico con le sue ultime forze, ma anche con la ferma volontà di vittoria, si era conclusa con un insuccesso molto simile ad una vera e propria sconfitta.
Note conclusive della Relazione ufficiale austriaca sulla battaglia del Solstizio

Nulla in realtà il nemico trascurò per conseguire un tale risultato positivo che per lui era vitale; né lo slancio, la tenacia e il valore - del resto abituale e sperimentato in tante precedenti battaglie - gli difettarono.
Note conclusive della Relazione ufficiale italiana sulla battaglia del Solstizio

Per comprendere appieno l’importanza della battaglia del Solstizio - lo scontro che ancor più di Vittorio Veneto sancì la vittoria finale italiana - occorre compiere un passo indietro fino alla notte tra il 23 e il 24 ottobre 1917, quando tra Plezzo e Tolmino la truppe austro-tedesche sfondarono le linee italiane, costringendo il Regio esercito ad una disastrosa ritirata attraverso il Friuli e il Veneto, attestandosi sul Piave. Le dimensioni assunte dalla vittoria stupì in primis gli stessi comandi austro-tedeschi, i quali avevano pianificato un attacco certamente importante ma non prevedevano una prosecuzione dell’offensiva in profondità.
Il 9 novembre 1917 Diaz assumeva il comando supremo, trovando un esercito disorganizzato, assottigliato negli organici e, secondo Cadorna, in preda ad una forte demoralizzazione. Riguardo gli allarmi sulla presunta crisi morale si scoprì ben presto come questi fossero infondati. Anche dopo il trauma di Caporetto i soldati erano ancora in grado di battersi validamente, mentre le denunce di viltà e facile resa erano in buona parte false, tanto che durante i giorni dell’avanzata gli austro-tedeschi avevano subito circa 70 mila morti e feriti. Tuttavia, le truppe a disposizione erano troppo poche: il fronte tra lo Stelvio e Asiago pur non essendo stato investito dall’offensiva non poteva essere sguarnito, in quanto stava per essere attaccato dall’XI armata austriaca del Trentino. Le nuove posizioni dietro le quali si era trincerato l’esercito italiano - sul monte Grappa e lungo il Piave - potevano contare su sette divisioni della IV armata ritiratesi dal Cadore (gen. Di Robilant) e sulle otto divisioni della III Armata (duca d’Aosta) giunte dal Carso. Forze nel complesso ancora in discreta efficienza, ma che avevano perso la maggior parte del loro equipaggiamento pesante (artiglierie medie e pesanti, più le bombarde) durante la ritirata. Nella pianura veneta erano invece in riorganizzazione la II armata e la V armata, incaricate di raccogliere gli sbandati di Caporetto, mentre erano in afflusso 6 divisioni francesi e 5 inglesi, 240 mila uomini in totale.

Malgrado la mancanza di piani prestabiliti, i comandi austro-tedeschi erano decisi a proseguire un’offensiva che lasciava presagire una nuova vittoria contro gli esausti italiani. Fu così che il 13 novembre 1917 le truppe imperiali si lanciarono all’attacco delle precarie linee del Piave, del Grappa e dell’altopiano di Asiago: era iniziata la battaglia d’arresto. Sul Piave gli austro-tedeschi pur contando su una superiorità schiacciante non riuscirono a prendere la sponda destra a causa dell’accanita resistenza italiana e di una provvidenziale piena del fiume. Nel settore dei ponti di Vidor i tentativi delle divisioni tedesche di forzare le difese italiane fallirono con dure perdite, né miglior fortuna ebbero le offensive austriache più a sud. Più lunga e incerta fu la battaglia del monte Grappa, che infuriò per oltre un mese. Qui gli austro-tedeschi colsero alcuni successi iniziali conquistando il monte Tomba e la dorsale del Monfenera, affacciandosi sulla pianura veneta. Tuttavia, anche qui gli italiani tennero saldamente le posizioni dominanti respingendo tutti gli attacchi. La battaglia si arrestò a dicembre per l’esaurimento delle truppe austro-tedesche e l’afflusso dei rinforzi francesi, che il 30 riconquistarono la dorsale Tomba-Monfenera. Stesso esito ebbero i tentativi delle forze austro-ungariche di Conrad sull’altopiano di Asiago che riuscì in un primo tempo ad occupare l’altopiano, fallendo però nel tentativo di raggiungere la pianura vicentina.
Le ragioni della vittoria difensiva sul Piave e sul Grappa, così come della tenace e a tratti eroica resistenza delle truppe italiane - che solo poche settimane prima erano state travolte a Caporetto - sono varie. A livello psicologico pesò senza dubbio – positivamente – il fatto di trovarsi a dover resistere “spalle al muro” contro un nemico percepito come senza scrupoli e privo di pietà, così come l’afflusso della nuove reclute della classe ’99 diede “linfa vitale” alle esauste truppe. Al contempo non vanno trascurate la rapida riorganizzazione delle forze della IV e III armata e le forti difese approntate sul Grappa già ai tempi della Strafexpedition. Modesto fu invece il contributo delle 11 divisioni alleate, tenute prima di riserva e in seguito gettate nella mischia quando ormai la battaglia era conclusa. Se l’apporto diretto degli alleati alla battaglia d’arresto fu quindi secondario, contrariamente, quello indiretto fu essenziale, poiché la loro presenza permise a Diaz di mandare in battaglia tutte le unità italiane disponibili. Vanno infine sottolineati una serie di errori e debolezze delle forze austro-tedesche. Esse erano infatti disperse su un fronte vasto, perdendo così la superiorità numerica nei settori decisivi, le artiglierie pesanti erano rimaste indietro durante l’avanzata (una parte di quelle tedesche erano già state ridislocate in Francia), vi erano grandi difficoltà nel rifornire le divisioni a causa dell’allungamento della catena logistica, mentre l’alto morale delle truppe non compensava la mancanza dell’effetto sorpresa.

Nei mesi successivi sul fronte italiano si assisté ad una situazione di sostanziale stallo. L’esercito austro-ungarico, pur liberato dall’incombenza del fronte orientale, attraversava una profonda crisi. I 500 mila ex prigionieri rimpatriati dalla Russia non potevano essere rapidamente reimpiegati ed in alcuni casi rappresentavano una problematica massa critica che diffondeva negli acquartieramenti idee pacifiste, bolsceviche e nazionaliste. Il 1° febbraio 1918 i marinai della base di Cattaro si ammutinarono mentre la crisi alimentare si aggravò ulteriormente, provocando ribellioni tra le truppe nelle retrovie, scioperi nelle fabbriche e nelle città, nonché forze centrifughe indipendentiste in un crescente numero di sudditi dell’impero multietnico. Contrariamente, dall’altra parte del fronte, l’esercito italiano poteva contare su un paese nel complesso solidale con lo sforzo bellico e su un apparato militare in continuo rafforzamento, sia dal punto di vista morale che materiale.
Ciononostante, l’esercito austro-ungarico schierato sul fronte italiano poteva contare su forze consistenti che ancora non avevano dato alcun segno di cedimento, dotate di numerose artiglierie abbondantemente rifornite di munizioni. Falliti i ripetuti sondaggi di pace promossi dall’imperatore Carlo e alla luce della grave situazione interna del paese, l’unica via percorribile era quella di ottenere una netta vittoria sul campo contro i secolari nemici italiani. La nuova offensiva sul Piave del giugno 1918 fu preparata dagli alti comandi austriaci con l’imperativo che non poteva e non doveva fallire. Un totale di 58 divisioni erano organizzate nel gruppo d’armate del Tirolo, al comando del maresciallo Conrad e nel gruppo d’armate del Piave del maresciallo Borojević. Come in occasione della battaglia d’arresto anche in questo caso i comandi austro-ungarici peccarono di eccessivo ottimismo, convinti che un attacco concentrato di tutte le loro forze fosse sufficiente a sfondare il fronte italiano. In primo luogo la direttrice dell’attacco non fu una, bensì estesa sulla lunga linea del fronte che da Asiago arrivava fino al mare, perdendo così la superiorità numerica nei settori cruciali. Un altro problema era il rancio per le truppe, troppo scarso per far sì che esse sopportassero lunghi combattimenti. Tuttavia tale elemento contribuì paradossalmente a galvanizzare ulteriormente i soldati, convinti di cogliere una vittoria decisiva ed un ampio bottino.

L’offensiva austriaca scattò il 13 giugno sul Tonale e il 15 giugno dall’altopiano d’Asiago al mare, cogliendo successi parziali ed effimeri. Il servizio informazioni italiano era perfettamente a conoscenza dell’offensiva e l’alto comando aveva già approntato ampie riserve nelle retrovie e il massiccio intervento dell’artiglieria, tanto che nel settore di Asiago essa intervenne efficacemente ancor prima dell’inizio dell’offensiva. In un primo tempo le truppe austro-ungariche, con grande slancio, si impadronirono dei cosiddetti “tre monti” (il col del Rosso, il col d'Ecchele ed il monte Valbella) e del settore tra il Brenta e il Grappa, tuttavia, entro fino giugno tutte le posizioni perse erano già state riconquistate.
Maggiori preoccupazioni destarono le operazioni lungo il Piave, dove le difese italiane erano meno forti. Pur dovendo fronteggiare una nuova piena del fiume, gli austriaci in un primo tempo riuscirono a traversarlo in più punti, impadronendosi del Montello e di una striscia di terreno tra le Grave di Papadopoli e il mare. Tuttavia – ancora una volta – il tempestivo intervento dell’artiglieria e dell’aviazione prima bloccò l’avanzata, poi distrusse i ponti di barche attraverso i quali transitavano le truppe austriache e i rifornimenti, rendendo insostenibili ulteriori avanzate. Il successivo afflusso delle riserve italiane permise infine di riconquistare il terreno perduto.
Nonostante il grande valore delle truppe imperial-regie, che in alcuni punti misero seriamente a rischio la tenuta del fronte, e malgrado alcuni limiti di efficienza del comando di Diaz, la battaglia del Solstizio si concluse con una netta vittoria italiana. Tra le file del Regio esercito si contarono 86.600 morti, feriti e dispersi, contro gli oltre 118.000 austro-ungarici. In Italia la vittoria nella battaglia del Solstizio ebbe vasto eco, entrando di fatto nella “mitologia nazionale” grazie in particolar modo ad una canzone di grande successo del compositore E. A. Mario La leggenda del Piave. Per la propaganda esso divenne il fiume sacro d’Italia, dietro il quale preparare la riscossa finale.
Per l’imperial-regio esercito la sconfitta pesava - oltre dal punto di vista delle perdite materiali - soprattutto alla luce delle conseguenze morali sulla coesione delle truppe e del fronte interno. Le alte sfere militari e politiche della duplice monarchia erano infatti consce di non essere più in grado di sferrare una nuova, vasta, offensiva contro l’Italia. La battaglia del Solstizio era l'ultima possibilità per gli austriaci di volgere a proprio favore le sorti della guerra, ma il suo fallimento, con un bilancio così pesante e nelle disastrose condizioni socio-economiche in cui versava l'Impero, significava di fatto l'inizio della fine, che sarebbe sopraggiunta quattro mesi dopo a Vittorio Veneto. Significative a questo scopo le parole del generale Baj-Macario, il quale riconobbe che: “Gli austro-ungheresi hanno attraversato tutte le peripezie: oltre il turbine di fuoco della terra e del cielo ed i nostri insistenti contrattacchi, hanno conosciuto il tormento della fame e della sete, le ansie della piena del fiume alle spalle. Le acque dei canali e del Piave che convogliavano e dove si disfacevano i cadaveri, erano inquinate, giallastre e non si poteva berle senza rischio. Le tende, le case, i cascinali, i nostri ricoveri erano stati minuziosamente frugati nell’affannosa ricerca di viveri; frutta acerbe, pannocchie di granoturco immature erano servite per alleviare la fame”.


Gallery

Bombarda da 400mm presso il monte Grappa. 1918 [AF MSIGR 3/1250]
Soldati italiani con mitragliatrice presso la linea del Piave. Giugno 1918 [AF MSIGR 3/971]

Biografia

Luigi Rizzo

Luigi nacque a Milazzo da Giacomo e da Maria Giuseppa Greco. Quinto di sei figli, crebbe in una famiglia dalla forte tradizione marinara e patriottica: fu infatti nipote, figlio e fratello di marinai e a soli otto anni si imbarcò sulla nave comandata dal padre, dando da subito prova delle proprie attitudini. Completò il suo percorso di studi all’Istituto Nautico di Messina, dove nel 1905 conseguì la licenza d’onore, cioè il diploma di Aspirante al comando di navi mercantili.
Salpò in qualità di mozzo sul veliero Speme, rischiando addirittura il naufragio nei pressi di Capo Horn, e sul Siciliano, l’imbarcazione degli zii utilizzata per il trasporto di grano e carbone. Dal 1907 al 1912 fu primo ufficiale del piroscafo Livietta, che viaggiava tra Genova e la Gran Bretagna.
Divenuto Capitano di Gran Cabotaggio nel 1911, dal 1912 ottenne i risultati da lui desiderati: fu nominato Capitano di Lungo Corso e Sottotenente di Vascello di complemento della Riserva Navale nella Marina Militare. Lo stesso anno lavorò per la commissione Europea del Danubio nel Mar Nero e, in seguito al coraggioso salvataggio di una nave alla deriva, gli venne conferita dal governo romeno una medaglia d’oro al valor civile.

Una volta scoppiato il conflitto, nel 1914 fece ritorno in patria in quanto richiamato in servizio attivo all’isola della Maddalena prima, a Venezia come istruttore poi.
L’anno successivo, pochi giorni dopo l’entrata in guerra dell’Italia, fu promosso Tenente di Vascello di complemento ed assegnato alla difesa marittima di Grado: ebbe così inizio la storia di Rizzo, detto “l’Affondatore”.
Entrò in azione in qualità di osservatore su idrovolanti nell’Adriatico, emergendo per le proprie doti ed il proprio coraggio: a novembre gli furono assegnate una prima medaglia d’argento e la nomina a Tenente di Vascello in servizio attivo permanente per meriti speciali di guerra.
Nel 1916 Rizzo venne trasferito nella nuova arma dei MAS, ottenendo il comando della squadriglia di Grado. I MAS (Motobarche Armate Svan) erano dei motoscafi relativamente leggeri e veloci, prodotti dal giugno 1915 nei cantieri della SVAN, la Società Veneziana Automobili Navali. Si trattava di imbarcazioni dotate di siluri ed ideate al fine di attuare incursioni fulminee nei porti o contro altre navi. Furono innumerevoli le azioni ardite da lui intraprese nelle vicinanze del porto di Trieste.
Nel maggio 1917 gli fu conferita la seconda medaglia d’argento per essersi soffermato sotto il tiro avversario al fine di catturare due aviatori di un idrovolante nemico costretto all’ammaraggio.
In seguito alla rotta di Caporetto, la Regia Marina dovette abbandonare Grado e le posizioni costiere dell’Alto Adriatico: nel porto di Trieste arrivarono dunque da Pola due guardacoste corazzate austriache, la Budapest e la Wien. Dopo essersi sposato a fine ottobre con Giuseppina Marinaz, nella notte del 9 dicembre Rizzo, con una sezione di MAS (il MAS 9 e il MAS 13), riuscì ad aprire un varco tra gli ostacoli e ad introdursi in silenzio nella baia, lanciando due siluri contro la Wien, che affondò rapidamente insieme al suo equipaggio. Grazie al buon esito dell’impresa, egli ottenne una medaglia d’oro al valor militare, che seguì alla terza medaglia d’argento, concessa per le missioni svolte nei mesi di servizio a Grado e per il contegno tenuto durante il ripiegamento.
Il 1°gennaio 1918 fu promosso Capitano di Corvetta per meriti di guerra. All’inizio dell’anno Rizzo, D’Annunzio e Ciano furono protagonisti di quella che sarà poi chiamata la “beffa di Buccari”, un’azione compiuta nel tentativo di forzare la baia di Buccari (oggi Bakar, in Croazia), dove si trovavano numerose imbarcazioni austriache. Tra il 10 e l’11 febbraio, i MAS 94, 95 e 96 (quest’ultimo al comando di Rizzo), partiti da Venezia e giunti a Buccari, lanciarono senza successo sei siluri contro quattro piroscafi ed abbandonarono nel porto tre bottiglie contenenti parole di scherno scritte da D’Annunzio, per poi far rientro ad Ancona. In questa circostanza il poeta coniò anche quello che divenne il motto dei MAS: Memento Audere Semper. Il coinvolgimento dell’ufficiale nell’impresa ebbe come conseguenza l’assegnazione della sua quarta medaglia d’argento.
Trasferito dall’Alto Adriatico alla squadriglia MAS di Ancona, gli fu affidata la mansione di organizzare un certo numero di motoscafi operanti nelle acque dalmate. La notte tra il 9 e il 10 giugno, dopo aver avvistato, nei pressi dell’isola di Premuda, diverse unità navali nemiche, andò all’attacco senza esitazione, riuscendo ad affondare una corazzata monocalibro, la Szent Istvàn, ovvero la Santo Stefano. In seguito all’esito positivo dell’azione, che rappresentò un durissimo colpo per la Marina austro-ungarica, Rizzo ottenne la seconda medaglia d’oro al valor militare, fu promosso Capitano di Fregata per meriti di guerra e diventò un eroe nazionale, al punto che il 10 giugno divenne poi ufficialmente il giorno della festa della Marina.

Nel 1919, terminata la guerra, prese parte alla fase iniziale dell’impresa di Fiume: fu nominato comandante della flotta del governo autonomo e, grazie al suo prestigio, sei navi da guerra italiane passarono alle dipendenze delle autorità fiumane, rendendo di fatto possibile il rifornimento della città, malgrado il blocco navale stabilito dal governo italiano. 
Nel 1920 abbandonò l’incarico e tornò a dedicarsi alla marina mercantile. Fu dispensato dal servizio attivo e trasferito alla riserva navale. Andò a vivere nella sua villa di Pegli (Genova) e nel primo dopoguerra nacquero i suoi tre figli.
Nel 1925 fu elevato al grado di Capitano di Vascello, mentre nell’ottobre 1932 venne nominato Contrammiraglio e gli fu conferito il titolo di Conte di Grado e, successivamente, di Premuda.
Nel 1935 entrò nuovamente nel sevizio attivo della Marina per la guerra d’Etiopia e nel giugno 1936 fu insignito del titolo di Ammiraglio di Divisione per meriti eccezionali. Fu presidente della compagnia di navigazione messinese Eolia e consigliere della Società Marittima Finanziaria. 
Nel 1937 accettò la presidenza del Lloyd triestino, altra compagnia di navigazione, mentre nel 1940 diventò vicepresidente della Corporazione del mare e dell’aria e membro della Camera dei Fasci e delle Corporazioni. 
Nel 1942 fu nominato presidente dei Cantieri riuniti dell’Adriatico. Dopo il settembre 1943, ordinò il sabotaggio di piroscafi e transatlantici a Trieste affinché non cadessero in mano tedesca e difese strenuamente gli interessi economici degli operai che lavoravano nei cantieri triestini. Per questi fatti, nell’aprile 1944 fu arrestato e portato nel carcere di Klagenfurt in Austria, per poi essere trasferito in un campo d’internamento vicino al confine bavarese. Rimpatriò, dopo la liberazione ad opera dei Francesi nel maggio 1945.
Operato per un tumore al polmone, morì a Roma nel 1951. 

Bibliografia
Grienti Vincenzo, Merlini Leonardo, Navi al fronte. La marina italiana e la Grande Guerra, Fidenza, Mattioli 1885, 2015

Sitografia
http://www.treccani.it/
http://www.marina.difesa.it/


Link

http://www.icsm.it/articoli/ri/primabattagliapiave.html  (ITA)
http://www.magicoveneto.it/Grappa/GrandeGuerra.htm (ITA)
https://encyclopedia.1914-1918-online.net/article/piave_battles_of
https://encyclopedia.1914-1918-online.net/article/monte_grappa_battle_of
https://www.raicultura.it/webdoc/grande-guerra/solstizio/index.html#Intro


Letture

Fritz Weber, Tappe della disfatta, Milano, Mursia, 2004
Mario Isnenghi, Giorgio Rochat, La grande guerra: 1914-1918, Bologna, il Mulino, 2008
Gianni Pieropan, Storia della Grande Guerra sul fronte italiano. 1915-1918, Milano, Mursia, 2009
Alfred Krauss, Le cause della nostra disfatta, a cura di P. Pozzato, Bassano del Grappa, Itinera Progetti, 2014
Fortunato Minniti, Il Piave, Il Mulino, 2000